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LE STORIE DEL CASTELLO DI TREZZA 13 ÷àñòü



Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

L'AMANTE DI GRAMIGNA

 

A Salvatore Farina.

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorì, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.

Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell'immaginazione, che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?

Quando nel romanzo l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l'impronta dell'avvenimento reale, l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine.

 

Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l'erba che lo porta, il quale da un capo all'altro della provincia s'era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell'annata in man di Dio, ché i proprietarii non s'arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d'armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po' troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d'altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d'armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all'impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s'arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all'intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.

Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu “candela di sego” che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.

La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, “tutto di roba bianca a quattro” come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d'oro per le dieci dita delle mani: dell'oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. “Candela di sego” nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all'uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill'anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse:

- La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi -.

Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, “Candela di sego” era rimasto a bocca aperta.

Che è, che non è, Peppa s'era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì, ch'era un uomo! - Che ne sai? - Dove l'hai visto? - Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. - Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! -

Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.

Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch'essa, come lui.

Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell'uscio con immagini di santi.

Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l'inferno nella faccia.

Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.

- Ha fatto due ore di fuoco! - dicevano; - c'è un carabiniere morto, e più di tre compagni d'armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato -.

Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.

Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia - non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli - lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata.

Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell'alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.

- Che vuoi? - le chiese. - Che vieni a far qui?

Ella non rispose, guardandolo fisso.

- Vattene! - diss'egli, - vattene, finché t'aiuta Cristo!

- Adesso non posso più tornare a casa, - rispose lei; - la strada è tutta piena di soldati.

- Cosa m'importa? Vattene! -

E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso:

- Dunque?... Sei pazza?... O sei qualche spia?

- No, - diss'ella, - no!

- Bene, va a prendermi un fiasco d'acqua, laggiù nel torrente, quand'è così -.

Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé:

- Queste erano per me -.

Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich'ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:

- Vuoi venire con me?

- Sì, - accennò ella col capo avidamente, - sì -.

E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d'acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.

Una notte c'era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzò in piedi a un tratto, e le disse:

- Tu resta qui, o t'ammazzo com'è vero Dio! -

Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.

- Ferma! ferma! -

E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.

- È finita! - disse lui. - Ora mi prendono -; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo.

Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d'armi gli furono addosso tutti in una volta.

Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell'oro quanto Santa Margherita!

La povera madre di Peppa dovette vendere “tutta la roba bianca” del corredo, e gli orecchini d'oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.

Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch'era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.

Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l'avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov'era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l'ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano “lo strofinacciolo della caserma”. Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.

GUERRA DI SANTI

 

Tutt'a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt'intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradicie fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all'ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.

Tutto ciò per l'invidia di que' del quartiere di San Pasquale, perché quell'anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c'era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d'oro, che pesava più d'un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una “spuma d'oro” addirittura. Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicché uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile: - Viva San Pasquale! - Allora s'erano messe le legnate.

Certo andare a dire “viva San Pasquale” sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c'è più né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel po' di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutt'una cosa. Se si è in chiesa, vanno in aria le panche; nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle.

- Santo diavolone! - urlava compare Nino, tutto pesto e malconcio. - Voglio un po' vedere chi gli basta l'anima di gridare ancora “viva San Pasquale!”.

- Io! - rispose furibondo Turi il “conciapelli” il quale doveva essergli cognato, ed era fuori di sé per un pugno acchiappato nella mischia, che lo aveva mezzo accecato. - Viva San Pasquale, sino alla morte!

- Per l'amor di Dio! per l'amor di Dio! - strillava sua sorella Saridda, cacciandosi tra il fratello ed il fidanzato, ché tutti e tre erano andati a spasso d'amore e d'accordo sino a quel momento.

Compare Nino, il fidanzato, vociava per ischerno:

- Viva i miei stivali! viva san stivale!

- Te'! - urlò Turi colla spuma alla bocca, e l'occhio gonfio e livido al pari d'un petronciano. - Te', per San Rocco, tu dei stivali! Prendi! -

Così si scambiarono dei pugni che avrebbero accoppato un bue, sino a quando gli amici riuscirono a separarli, a furia di busse e di pedate. Saridda, scaldatasi anche lei, strillava - viva San Pasquale -, che per poco non si presero a ceffoni collo sposo, come fossero già stati marito e moglie. - In tali occasioni si accapigliano i genitori coi figliuoli, e le mogli si separano dai mariti, se per disgrazia una del quartiere di San Pasquale ha sposato uno di San Rocco.

- Non voglio sentirne parlare più di quel cristiano! - sbraitava Saridda, coi pugni sui fianchi, alle vicine che le domandavano come era andato all'aria il matrimonio. - Neanche se me lo danno vestito d'oro e d'argento, sentite!

- Per conto mio Saridda può far la muffa! - diceva dal canto suo compare Nino, mentre gli lavavano all'osteria il viso tutto sporco di sangue. - Una manica di pezzenti e di poltroni, in quel quartiere di conciapelli! Quando m'è saltato in testa d'andare a cercarmi colà l'innamorata dovevo essere ubriaco.

- Giacch'è così! - aveva conchiuso il sindaco - e non si può portare un santo in piazza senza legnate, che è una vera porcheria, non voglio più feste, né quarant'ore! e se mi mettono fuori un moccolo, che è un moccolo! li caccio tutti in prigione.

La faccenda poi s'era fatta grossa, perché il vescovo della diocesi aveva accordato il privilegio di portar la mozzetta ai canonici di San Pasquale, e quelli di San Rocco, che avevano i preti senza mozzetta, erano andati fino a Roma, a fare il diavolo ai piedi del Santo Padre, coi documenti in mano, su carta bollata e ogni cosa; ma tutto era stato inutile, giacché i loro avversari del quartiere basso, che ognuno se li rammentava senza scarpe ai piedi, s'erano arricchiti come porci, colla nuova industria della concia delle pelli, e a questo mondo si sa, che la giustizia si compra e vende come l'anima di Giuda.

A San Pasquale aspettavano il delegato di monsignore, il quale era un uomo di proposito, che ci aveva due fibbie d'argento di mezza libra l'una alle scarpe, chi l'aveva visto, e veniva a portare la mozzetta ai canonici; perciò avevano scritturato anche loro la banda, per andare ad incontrare il delegato di monsignore tre miglia fuori del paese, e si diceva che la sera ci sarebbero stati i fuochi in piazza, con tanto di “Viva San Pasquale” a lettere di scatola.

Gli abitanti del quartiere alto erano quindi in gran fermento, e alcuni, più eccitati, mondavano certi randelli di pero e di ciliegio grossi come stanghe, e borbottavano:

- Se ci dev'essere la musica, si ha da portar la battuta! -

Il delegato del vescovo correva un gran pericolo di uscirne colle ossa rotte, dalla sua entrata trionfale. Ma il reverendo, furbo, lasciò la banda ad aspettarlo fuor del paese, e a piedi, per le scorciatoie, se ne venne pian piano alla casa del parroco, dove fece riunire i caporioni dei due partiti. Come quei galantuomini si trovarono faccia a faccia, dopo tanto tempo che litigavano, cominciarono a guardarsi nel bianco degli occhi, quasi sentissero una gran voglia di strapparseli a vicenda, e ci volle tutta l'autorità del reverendo, il quale s'era messo per la circostanza il ferraiuolo di panno nuovo, per far venire i gelati e gli altri rinfreschi senza inconvenienti.

- Così va bene! - approvava il sindaco col naso nel bicchiere, - quando mi volete per la pace, mi ci trovate sempre -.

Il delegato disse infatti ch'egli era venuto per la conciliazione, col ramoscello d'ulivo in bocca, come la colomba di Noè, e facendo il fervorino andava distribuendo sorrisi e strette di mano, dicendo a tutti: - Loro signori favoriranno in sagrestia, a prendere la cioccolata, il dì della festa.

- Lasciamo stare la festa, - disse il vicepretore, - se no, nasceranno degli altri guai.

- I guai nasceranno se si fanno di queste prepotenze, che uno non è più padrone di spassarsela come vuole, spendendo i suoi denari! - esclamò Bruno il carradore.

- Io me ne lavo le mani. Gli ordini del governo sono precisi. Se fate la festa mando a chiamare i carabinieri. Io voglio l'ordine.

- Dell'ordine rispondo io - sentenziò il sindaco, picchiando in terra coll'ombrella, e girando lo sguardo intorno.

- Bravo! come se non si sapesse che chi vi tira i mantici in Consiglio è vostro cognato Bruno! - ripicchiò il vicepretore.

- E voi fate l'opposizione per la picca di quella contravvenzione del bucato che non potete mandar giù!

- Signori miei! signori miei! - andava raccomandando il delegato. - Così non facciamo nulla.

- Faremo la rivoluzione, faremo! - urlava Bruno colle mani in aria.

Per fortuna, il parroco aveva messo in salvo, lesto lesto, le chicchere e i bicchieri, e il sagrestano era corso a rompicollo a licenziare la banda, che, saputo l'arrivo del delegato, accorreva a dargli il benvenuto, soffiando nei corni e nei tromboni.

- Così non si fa nulla! - borbottava il delegato; e gli seccava pure che le messi fossero già mature, di là delle sue parti, mentre ei se ne stava a perdere il suo tempo con compare Bruno e col vicepretore, che volevano mangiarsi l'anima.

- Cos'è questa storia della contravvenzione pel bucato?

- Le solite prepotenze. Ora non si può sciorinare un fazzoletto da naso alla finestra, che subito vi chiappano la multa. La moglie del vicepretore, fidandosi che suo marito era in carica, - sinora un po' di riguardo c'era sempre stato per le autorità, - soleva mettere ad asciugare sul terrazzino tutto il bucato della settimana, si sa... quel po' di grazia di Dio!... Ma adesso, colla nuova legge, è peccato mortale, e son proibiti perfino i cani e le galline, e gli altri animali, con rispetto, che fino ad ora facevano la polizia delle strade. Alle prime pioggie, se Dio vuole, l'avremo sino al mostaccio, il sudiciume.

Il delegato del vescovo, per conciliare gli animi, stava inchiodato nel confessionario come una civetta, dalla mattina alla sera, e tutte le donne volevano essere confessate da lui, che ci aveva l'assoluzione plenaria per ogni sorta di peccati, quasi fosse stata la persona stessa di monsignore.

- Padre! - gli diceva Saridda col naso alla graticola del confessionario. - Compare Nino ogni domenica mi fa far peccati in chiesa.

- In che modo, figliuola mia?

- Quel cristiano doveva esser mio marito, prima che vi fossero queste chiacchiere in paese; ma ora che il matrimonio è rotto, si pianta vicino all'altar maggiore, per guardarmi, e ridere coi suoi amici, tutto il tempo della messa -.

E come il reverendo cercava di toccare il cuore a compare Nino:

- È lei piuttosto che mi volta le spalle, quando mi vede, quasi fossi uno scomunicato! - rispondeva il contadino.

Egli invece, se la gnà Saridda passava dalla piazza la domenica, affettava di esser tutt'uno col brigadiere, o con qualche altro pezzo grosso, e non si accorgeva nemmeno di lei. Saridda era occupatissima a preparare lampioncini di carta colorata, e glieli schierava sul naso, lungo il davanzale, col pretesto di metterli ad asciugare. Una volta che si trovarono insieme in un battesimo, non si salutarono nemmeno, come se non si fossero mai visti, e anzi Saridda fece la civetta col compare che aveva battezzata la bambina.

- Compare da strapazzo! - sogghignava Nino. - Compare di bambina! Quando nasce una femmina si rompono persino i travicelli del tetto -.

E Saridda, fingendo di parlare colla puerpera:

- Tutto il male non viene per nuocere. Alle volte, quando vi pare d'aver perso un tesoro, dovete ringraziar Dio e San Pasquale! ché prima di conoscere bene una persona bisogna mangiare sette salme di sale.

- Già, le disgrazie bisogna pigliarle come vengono; il peggio è guastarsi il sangue per cose che non ne valgono la pena. Morto un papa, se ne fa un altro -.

In piazza suonava il tamburo, quello della meta.

- Il sindaco dice che vi sarà la festa, - sussurravano nella folla.

- Litigherò sino alla consumazione dei secoli! Mi ridurrò povero e in camicia come il Santo Giobbe, ma quelle cinque lire di multa non le pagherò, dovessi lasciarlo nel testamento!

- Sangue d'un cane! che festa vogliono fare se quest'anno morremo tutti di fame? - esclamava Nino.

Sin dal mese di marzo non pioveva una goccia d'acqua, e i seminati, gialli, che scoppiettavano come l'esca “morivano di sete”. Bruno il carradore diceva invece che appena San Pasquale esciva in processione pioveva di certo. Ma che gliene importava della pioggia a lui, se faceva il carradore, e a tutti gli altri conciapelli del suo partito?...

Infatti portarono San Pasquale in processione a levante e a ponente, e l'affacciarono sul poggio, a benedir la campagna, in una giornata afosa di maggio, tutta nuvoli - una di quelle giornate in cui i contadini si strappano i capelli dinanzi ai campi “bruciati”, e le spighe chinano il capo proprio come se morissero.

- San Pasquale maledetto! - gridava Nino sputando in aria, e correndo come un pazzo pel seminato. - M'avete rovinato, San Pasquale ladro! Non mi avete lasciato altro che la falce per tagliarmi il collo! -

Nel quartiere alto era una desolazione: una di quelle annate lunghe, in cui la fame comincia a giugno, e le donne stanno sugli usci, spettinate e senza far nulla, coll'occhio fisso. La gnà Saridda, all'udire che si vendeva in piazza la mula di compare Nino, onde pagare il fitto della terra che non aveva dato nulla, si sentì sbollire la collera in un attimo, e mandò in fretta e in furia suo fratello Turi, con quei soldi che avevano da parte, per aiutarlo.

Nino era in un canto della piazza, cogli occhi astratti e le mani in tasca, mentre gli vendevano la mula, tutta in fronzoli e colla cavezza nuova.

- Non voglio nulla - ei rispose torvo. - Le braccia mi restano ancora, grazie a Dio! Bel santo, quel San Pasquale, eh! -

Turi gli voltò le spalle per non finirla brutta, e se ne andò. Ma la verità era che gli animi si trovavano esasperati, ora che San Pasquale l'avevano portato in processione a levante e a ponente con quel bel risultato. Il peggio era che molti del quartiere di San Rocco si erano lasciati indurre ad andare colla processione anche loro, picchiandosi come asini, e colla corona di spine in capo, per amor del seminato. Ora poi si sfogavano in improperi, tanto che il delegato di monsignore aveva dovuto battersela a piedi e senza banda, com'era venuto.

Il vicepretore, per prendersi una rivincita sul carradore, telegrafava che gli animi erano eccitati, e l'ordine pubblico compromesso; sicché un bel giorno si udì la notizia che nella notte erano arrivati i Compagni d'Arme, e ognuno poteva andare a vederli nello stallatico.

- Son venuti pel colera, - dicevano però degli altri. - Laggiù nella città la gente muore come le mosche -.

Lo speziale mise il catenaccio alla bottega, il dottore scappò il primo di tutti, perché non l'accoppassero.

- Non sarà nulla, - dicevano quei pochi rimasti in paese, che non erano potuti fuggire qua e là per la campagna. - San Rocco benedetto lo guarderà il suo paese! e il primo che va in giro di notte gli faremo la pelle! -

E anche quelli del quartiere basso erano corsi a piedi scalzi nella chiesa di San Rocco. Però di lì a poco i colerosi cominciarono a spesseggiare come i goccioloni grossi che annunziano il temporale - e di questo dicevasi ch'era un maiale, e aveva voluto morire per fare una scorpacciata di fichidindia - e di quell'altro che era tornato da campagna a notte fatta. Insomma il colera era venuto bello e buono, malgrado la guardia, e alla barba di San Rocco, nonostante che una vecchia in odore di santità avesse sognato che San Rocco in persona le diceva:

- Del colera non abbiate paura, che ci penso io, e non sono come quel disutilaccio di San Pasquale -.

Nino e Turi non si erano più visti dopo l'affare della mula; ma appena il contadino intese dire che fratello e sorella erano malati tutti e due, corse alla loro casa, e trovò Saridda nera e contraffatta, in fondo alla stanzuccia, accanto a suo fratello il quale stava meglio, lui, ma si strappava i capelli e non sapeva più che fare.

- Ah! San Rocco ladro! - si mise a gemere Nino. - Questa non me l'aspettava! O gnà Saridda, che non mi conoscete più? Nino, quello di una volta? -

La gnà Saridda lo guardava con certi occhi infossati che ci voleva la lanterna a trovarli, e Nino ci aveva due fontane ai suoi occhi. - Ah, San Rocco! - diceva lui, - questo tiro è più birbone di quello che ci ha fatto San Pasquale!

Però la Saridda guarì, e mentre stava sull'uscio, col capo avvolto nel fazzoletto, gialla come la cera vergine, gli andava dicendo:

- San Rocco mi ha fatto il miracolo, e dovete venirci anche voi a portargli la candela per la sua festa -.

Nino, col cuore gonfio, diceva di sì col capo; ma intanto aveva preso il male anche lui, e stette per morire. Saridda allora si graffiava il viso, e diceva che voleva morire con lui, e si sarebbe tagliati i capelli e glieli avrebbe messi nel cataletto, ché nessuno l'avrebbe più vista in faccia, finché era viva.



Ïðîñìîòðîâ 699

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