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LE STORIE DEL CASTELLO DI TREZZA 14 ÷àñòü
- No! no! - rispondeva Nino, col viso disfatto. - I capelli torneranno a crescere; ma chi non ti vedrà più sarò io, che sarò morto. - Bel miracolo che ti ha fatto San Rocco ! - gli diceva Turi, per consolarlo. E tutti e due, convalescenti, mentre si scaldavano al sole, colle spalle al muro e il viso lungo, si gettavano in viso l'un l'altro San Rocco e San Pasquale. Una volta passò Bruno il carradore, che tornava di fuori a colera finito, e disse: - Vogliamo fare una gran festa, per ringraziare San Pasquale di averci salvati tutti quanti siamo. D'ora innanzi non ci saranno più arruffapopoli, né oppositori, ora che è morto quel vicepretore che ha lasciato la lite nel testamento. - Sì, faremo la festa per quelli che son morti! - sogghignò Nino. - E tu che sei vivo per San Rocco forse? - La volete finire, - saltò su Saridda, - che poi ci vorrà un altro colera, per far la pace! - PENTOLACCIA
Adesso viene la volta di “Pentolaccia” ch'è un bell'originale anche lui, e ci fa la sua figura fra tante bestie che sono alla fiera, e ognuno passando gli dice la sua. Lui quel nomaccio se lo meritava proprio, ché aveva la pentola piena tutti i giorni, prima Dio e sua moglie, e mangiava e beveva alla barba di compare don Liborio, meglio di un re di corona. Uno che non abbia mai avuto il viziaccio della gelosia, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che Santo Isidoro ce ne scampi e liberi, se gli salta poi il ghiribizzo di fare il matto, la galera gli sta bene. Aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse né re né regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia, per buscarsi il pane. Inutile sua madre, poveretta, gli dicesse: - Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada -. I vecchi ne sanno più di noi, e bisogna ascoltarli, pel nostro meglio. Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercano il marito fuori della mantellina: perciò se la prese senza volere udir altro, e la madre uscì di casa, dopo trent'anni che c'era stata, perché suocera e nuora insieme ci stanno proprio come cani e gatti. La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece, che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; fra marito e moglie erano anche liti e questioni, ogni volta che doveva pagarsi la mesata di quel tugurio. Quando infine la povera vecchia finì di penare, e lui corse al sentire che le avevano portato il viatico, non potè riceverne la benedizione, né cavare l'ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva già le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell'angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose. - Eh?... Eh?... - Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e la brutta fine. La povera vecchia morì col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di là tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore, al figliuolo. Appena Venera era rimasta padrona della casa, colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie - Tu che ci credi? - gli diceva lei. E basta. Lui allora contento come una pasqua. Era fatto così, poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno. Se gliel'avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero, grazia di Santa Lucia benedetta. A che giovava guastarsi il sangue? C'era la pace, la provvidenza in casa, la salute per giunta, ché compare don Liborio era anche medico; che si voleva d'altro, santo Iddio? Con don Liborio facevano ogni cosa in comune: tenevano una chiusa a mezzeria, ci avevano una trentina di pecore, prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garanzia, quando si andava dinanzi al notaio. “Pentolaccia” gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l'uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, né il grano nel graticcio, né il vino nella botte, né l'olio nell'orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta, don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino. Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio “signor compare” e lavorava con coscienza. Su tal riguardo non gli si poteva dir nulla a “Pentolaccia”. Badava a far prosperare la società col “signor compare” il quale perciò ci aveva il suo vantaggio anche lui, ed erano contenti tutti. Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutò in una casa del diavolo tutt'a un tratto, in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all'ombra, nell'ora del vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che “Pentolaccia” s'era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l'aveva visto. - Per questo si suol dire “quando mangi, chiudi l'uscio, e quando parli, guardati d'attorno”. Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare “Pentolaccia” il quale dormiva, e gli soffiasse nell'orecchio gl'improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell'anima come un chiodo. - E quel becco di “Pentolaccia”! - dicevano, - che si rosica mezzo don Liborio! - e ci mangia e ci beve nel brago! - e c'ingrassa come un maiale! - Che avvenne? Che gli passò pel capo a “Pentolaccia”? Si rizzò a un tratto senza dir nulla, e prese a correre verso il paese come se l'avesse morso la tarantola, senza vederci più degli occhi, che fin l'erba e si sassi gli sembravano rossi al pari del sangue. Sulla porta di casa sua incontrò don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia. - Sentite, “signor compare”, - gli disse - se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! - Don Liborio lo guardò negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perché davvero non si poteva immaginare che a “Pentolaccia” saltasse in mente da un momento all'altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d'uomo e di marito che fosse al mondo. - Che avete oggi, compare? - gli disse. - Ho, che se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa! - Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andò ridendo. Lui entrò in casa tutto stralunato, e ripetè alla moglie: - Se vedo qui un'altra volta il “signor compare” com'è vero Dio, gli faccio la festa! - Venera si cacciò i pugni sui fianchi, e cominciò a sgridarlo e a dirgli degli improperi. Ei si ostinava a dire sempre di sì col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione. I bambini strillavano al veder quella novità. La moglie infine prese la stanga, e lo cacciò fuori dell'uscio per levarselo dinanzi, dicendogli che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva. “Pentolaccia” non poteva più lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva. Prima d'imbrunire, ed era sabato, piantò la zappa nel solco, e se ne andò senza farsi saldare il conto della settimana. Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornò di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola. Ma ei non volle muoversi di lì, tenendosi la bambina fra le gambe, che, poveretta, non osava muoversi, e piagnucolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia. Venera quella sera aveva un diavolo per cappello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia. Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d'andare al caffè, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perché tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola. “Pentolaccia” lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto. Ma come si udì per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venìa adagio adagio, un po' stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia, “Pentolaccia” andò a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostò dietro l'uscio. Per disgrazia Venera non se ne accorse, giacché in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva. Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga, e gli lasciò cadere fra capo e collo tal colpo, che l'ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale. Così fu che “Pentolaccia” andò a finire in galera. IL COME, IL QUANDO ED IL PERCHÉ
Il signor Polidori e la signora Rinaldi si amavano - o credevano di amarsi - ciò che è precisamente la stessa cosa, alle volte; e in verità, se mai l'amore è di questa terra, essi erano fatti l'uno per l'altro: Polidori si godeva quarantamila lire di entrata, e una pessima riputazione di cattivo soggetto, la signora Rinaldi era una donnina vaporosa e leggiadra, e aveva un marito che lavorava per dieci, onde farla vivere come se possedesse quarantamila lire di rendita. Però sul conto di lei non era corsa la più innocente maldicenza, sebbene tutti gli amici di Polidori fossero passati in rivista, col fiore all'occhiello, dinanzi alla fiera beltà. Finalmente la fiera beltà era caduta - il caso, la fatalità, la volontà di Dio, o quella del diavolo, l'avevano tirata pel lembo della veste. Quando si dice cadere intendesi che aveva lasciato cadere sul Polidori quel primo sguardo languido, molle, smarrito, che fa tremare le ginocchia al serpente messo in agguato sotto l'albero della seduzione. Le cadute a rotta di collo son rare, e alle volte fanno scappare il serpente. La signora Rinaldi, prima di scendere da un ramo all'altro, voleva vedere dove metteva i piedi, e faceva mille graziose moine col pretesto di voler fuggire verso le cime alte. Da circa un mese ella si era appollaiata sul ramoscello della corrispondenza epistolare, ramoscello flessibile e pericoloso, agitato da tutte le aurette profumate. - Avevano cominciato col pretesto di un libro da chiedere o da restituire, di una data da precisare, o che so io - la bella avrebbe voluto fermarvisi un pezzo, su quel ramo, a cinguettare graziosamente, perché le donne cinguettano sempre a meraviglia, così cullandosi fra il cielo e la terra; Polidori, il quale aveva vuotato il sacco, divenne presto arido, laconico, categorico che era una disperazione. La poveretta chiuse gli occhi e le ali, e si lasciò scivolare un altro po'. - Non ho letto la vostra lettera; né voglio leggerla! - gli disse incontrandolo all'ultimo ballo della stagione, mentre seguivano la fila delle coppie. - Giacché non volete essere quello che vi avevo ideato, lasciatemi rimanere quale voglio essere io -. Polidori la fissava serio serio, tormentandosi i baffi, ma colla fronte china. Gli altri ballerini che non avevano nessuna ragione per stare a chiacchierare nel vano dell'uscio, li spingevano verso il salone. La donna arrossì, quasi fosse stata sorpresa in un abboccamento segreto con lui. Polidori - il serpente - notò quella vampa fugace. - Sapete che vi obbedirò ad ogni costo, - rispose semplicemente. La croce di brillanti scintillò sul petto di lei, sollevandosi in trionfo. Tutta la sera la signora Rinaldi ballò come una pazza, passando da un ballerino all'altro, tirandosi dietro uno sciame di adoratori, cogli occhi ebbri di festa, luccicanti come le gemme che le formicolavano sul seno anelante. Però ad un tratto, trovandosi faccia a faccia colla sua immagine in un grande specchio, si fece seria e non volle ballar più. Rispondeva a tutti di sentirsi stanca, molto stanca; e macchinalmente cercava cogli occhi suo marito. Non c'era nemmen lui, quell'uomo! In quei dieci minuti che rimase accasciata sul canapè, senza curarsi che la sua veste si affagottava sgarbatamente, le passarono davanti agli occhi delle strane fantasie, insieme alle coppie che ballavano il valzer. Polidori solo non ballava, né si vedeva più. - Che uomo era mai costui? Finalmente lo scorse in fondo a una sala deserta, faccia a faccia con una testa pelata, che non doveva aver nulla da dire, sorridendo come un uomo per cui il sorriso sia indifferente anch'esso. - Ella avrebbe preferito sorprenderlo colla più bella signora della festa, in parola d'onore! - Polidori non se ne avvide. Si alzò, premuroso sempre, e le offrì il braccio. In quel momento, proprio in quel momento doveva cacciarlesi fra i piedi anche suo marito, che cercava di lei. Allora, bruscamente, aggiustandosi sull'omero la scollatura della veste, con un leggiadro movimento della spalla, disse piano a Polidori, così piano che il fruscio della seta coprì quasi il suono della voce: - Sia pure, domani alle nove, ai Giardini -. Polidori s'inchinò profondamente e la lasciò passare, raggiante e commossa, al braccio del marito.
Giammai mattino di primavera non era sembrato così misteriosamente bello alla signora Rinaldi nella sua villa deliziosa della Brianza, e giammai ella non l'avea contemplato con occhio più distratto attraverso al cristallo scintillante del suo coupé, come quando il suo legnetto attraversava rapidamente la piazza Cavour. Il sole inondava i viali del giardino, caldo e dorato, sull'erba che incominciava a rinverdire; l'azzurro del cielo era profondo. Coteste impressioni, ad insaputa di lei, riverberavansi nei suoi grandi occhi neri, che guardavano lontano, non sapeva ella stessa dove, né che cosa, mentre appoggiava la mano e la fronte pallida alla manopola. Di tanto in tanto un brivido la faceva stringere nelle spalle, un brivido di stanchezza o di freddo. Appena la carrozza si fermò al cancello, ella trasalì, e si tirò indietro vivamente, quasi suo marito si fosse affacciato all'improvviso allo sportello. Esitò alquanto prima di scendere, colla mano sulla maniglia pensando vagamente a quell'aspetto nuovo, sotto cui le si affacciava alla mente suo marito; poi mise il piede a terra e si calò il velo sul viso: un velo fitto, nero, tempestato di puntini, attraverso al quale gli occhi acquistavano alcunché di febbrile, e i lineamenti una rigidità di fantasma. La carrozza si allontanò di passo, senza far rumore, da carrozza discreta e ben educata. Il giardino sembrava destato anche'esso prima dell'ora, e tutto sorpreso d'incominciar la sua giornata così presto. Degli uomini in manica di camicia lo lavavano, lo pettinavano, gli facevano la sua toeletta mattutina. Le poche persone che si incontravano avevano l'aspetto di trovarsi là a quell'ora per la prima volta, e per ordine del medico anche loro; osavano interrogare il velo della passeggiatrice mattiniera, e indovinare il profumo del fazzoletto nascosto nel manicotto che ella si premeva sul petto con forza. Un vecchio che si trascinava lentamente, cercando il sole di marzo, si fermò a guardarla, com'ella fu passata, appoggiandosi al bastone malfermo, e tentennò il capo tristamente. La signora Rinaldi si arrestò dinanzi alla sponda del laghetto, saettando a dritta e a sinistra un'occhiata guardinga, cercando qualche cosa o qualcuno. Il mormorìo fresco dell'acqua, e lo stormire lieve lieve degli ippocastani la isolavano completamente; allora sollevò alquanto il velo, e cavò dal guanto un bigliettino meno grande di una carta da giuoco. Per due o tre minuti l'acqua seguitò a scorrere, e le foglie a stormire per conto loro. La donna aveva gli occhi assorti, avidi, umidi di sogni. Tutt'a un tratto un passo frettoloso le fece rizzare il capo, e il sangue le avvampò sulle guance, come se gli occhi ardenti del nuovo arrivato le avessero sfiorato il viso con un bacio. Polidori stava per portare la mano al cappello, quando ella gli arrestò il gesto con uno sguardo impercettibile, e gli passò vicino senza fissarlo. Camminava a capo chino, ascoltando lo stridere della sabbia sotto i suoi stivalini, senza guardare dinanzi a sé. Di tanto in tanto si metteva il fazzoletto alla bocca; per riprender fiato, quasi il suo cuore divorasse avidamente tutta l'aria che la circondava. L'onda lenta del ruscello l'accompagnava chetamente, borbottando sottovoce, addormentando le ultime sue paure; l'ombra dei cedri e il silenzio del viale deserto la penetravano vagamente, con sottile voluttà. Quando si fermò dinanzi alla gabbia del leopardo il petto le scoppiava e i ginocchi le tremavano forte, ché accanto a lei si era fermato anche Polidori, guardando attentamente il superbo animale, con la curiosità che avrebbe mostrato un contadino sbandato per quelle parti, e le disse piano: - Grazie! - Ella non rispose, si fece rossa, e strinse con forza i ferri della stia a cui appoggiava la fronte. Cotesta sensazione le faceva bene sulla epidermide della mano senza guanto. Chi avrebbe potuto immaginare che quella semplice parola, scambiata di furto, in fondo a quel deserto, dovesse vibrare tanto deliziosamente! No! davvero! C'era da perderci la testa! Ella si sentiva avvampare fin sulla nuca, che ei, ritto dietro le sue spalle, poteva vedere arrossire; un'onda di parole sconnesse e tumultuose le montavano alla testa, la ubbriacavano; parlava del ballo dove si era divertita assai; di suo marito il quale era partito all'alba, quand'ella non aveva ancora chiuso gli occhi. - Però non sono stanca! quest'aria fresca fa bene, tanto bene! ci si sente rinascere, non é vero? - Sì! è vero! - rispose Polidori guardandola fisso negli occhi; ma ella non osava levarli di terra. - Quando sarò in Brianza voglio levarmi col sole tutti i giorni. In città facciamo una vita impossibile. Ma però voi altri signori dovete preferirla -.
Parlava in fretta, e con voce un po' troppo alta e squillante, sorridendo spesso, a caso; gli era grata inconsciamente che ei non osasse interromperla, non osasse mischiare la sua voce a quella di lei. Finalmente Polidori le disse: - Ma perché non avete voluto ricevermi a casa vostra? - Ella gli piantò gli occhi in viso per la prima volta dacché erano lì, sorpresa, dolorosamente sorpresa. - Finora in tutto quello che avevano fatto, in tutto quello che avevano detto, il male non c'era stato che vagamente, in nube, nella loro intenzione, con squisita delicatezza che i suoi sensi finissimi assaporavano deliziosamente, come il leopardo sdraiato ai loro piedi si godeva il raggio caldo del sole, ammiccando la larga pupilla dorata, con quel medesimo inconscio e voluttuoso stiramento di membra. Richiamata così bruscamente alla realtà, stringeva le mani e le labbra con un'espressione dolorosa; gli occhi le si velarono quasi, seguendo nello spazio l'incantesimo che si era rotto, e gli fissò in volto quegli occhi stralunati. Tutta l'esperienza che possedeva Polidori non seppe fargli leggere quello che vi si scorgeva. - Ah! - disse poi con voce mutata, - sarebbe stato più prudente!...
- Siete crudele! - mormorò Polidori. - No! - rispose ella sollevando il capo, un po' rossa, ma con accento fermo. - Non sono come tutte le altre signore, non sono prudente!... quando mi romperò il collo, vorrò godermi l'orrore del precipizio sotto di me! Tanto peggio per voi se non capite -. Allora ei le afferrò la mano per forza, divorando tutta la sua bellezza palpitante con uno sguardo assetato, e balbettò: - Volete?... volete?... Ella non rispose, e fece uno sforzo per ritirare la mano. Polidori implorava la sua grazia con parole concitate, deliranti. Le ripeteva una domanda, una preghiera, sempre la stessa, con diverse inflessioni di voce che andavano a ricercare la donna nelle più intime fibre di tutto il suo essere; ella ne sentiva la vampa, le sembrava di esserne avviluppata e divorata, soverchiata da un languore mortale e delizioso; e cercava di svincolarsi, pallida, smarrita, colle labbra convulse, spiando il viale di qua e di là con occhi pazzi di terrore, contorcendosi sotto quella stretta possente, facendo forza con tutte e due le mani febbrili per strapparsi da quell'altra mano che sentiva ardere sotto il guanto. Infine, vinta, fuori di sé, balbettò: - Sì! sì! sì! - e fuggì dinanzi a qualcuno di cui si udiva avvicinarsi il calpestìo. Uscendo dal giardino era così sconvolta che stette per buttarsi sotto i cavalli di una carrozza. Aveva avuto un appuntamento! Quello era stato un appuntamento! E ripeteva macchinalmente, balbettando: - È questo! è questo! - Si sentiva tutta piena ed ebbra di cotesta parola, e le sue labbra smorte agitavansi senza mandare alcun suono, vagamente assaporando la colpa. Andò barcollante sino alla prima carrozza che incontrò; e si fece condurre dalla sua Erminia, quasi in cerca di aiuto. La sua amica, vedendosela comparire dinanzi con quel viso, le corse incontro fin sull'uscio del salotto. - Che hai? - Nulla! nulla! - Come sei bella! Cos'hai? Ella, invece di rispondere, le saltò al collo e le fece due baci pazzi. La signora Erminia era abituata alle sfuriate d'amicizia della sua Maria. Si misero a guardare insieme le fotografie che avevano viste cento volte, e i fiori che erano da un mese sul terrazzino. In quel momento, per combinazione, passava Polidori nel phaeton del suo amico Guidetti, col sigaro in bocca, e salutò la signora Erminia allo stesso modo come avrebbe potuto salutare Maria, se l'avesse scorta rincantucciata fra gli arbusti, premendosi le mani sul petto che voleva scoppiarle. Era una cosa da nulla; ma uno di quei nonnulla che penetrano in tutto l'essere di una donna come la punta di un ago. Allora, tornando a casa, la signora Rinaldi scrisse a Polidori una lunga lettera, calma e dignitosa, onde pregarlo di rinunciare a quell'appuntamento, di cui le aveva strappata la promessa in un momento di aberrazione, un momento che rammentava ancora con confusione e rossore, per sua punizione. C'era tanta sincerità nella contraddizione dei suoi sentimenti, che quell'istante d'abbandono, dopo un'ora sembrava infinitamente lontano, e se qualche cosa di vivo vibrava tuttora fra le linee della lettera, era solo il rimpianto di sogni che si dileguavano così bruscamente. Ella faceva appello all'onore e alla delicatezza di lui per farle dimenticare il suo errore, e lasciarle la stima di se stessa. Polidori si aspettava quasi quella lettera: la signora Rinaldi era troppo inesperta per non pentirsi dieci volte, prima di aver motivo di pentirsi davvero; ei fece una cosa che gli provò come quella donnina inesperta avesse ridestato in lui un sentimento schietto e forte con tutta la freschezza delle prime impressioni: le rimandò la lettera accompagnata da questa breve risposta: “Vi amo con tutto il rispetto e la tenerezza che deve inspirare la vostra innocenza. Vi rimando la lettera che mi avete diretta, perché non sarei degno di conservarla, e non oserei distruggerla. Ma l'imprudenza che avete commesso scrivendo una tal lettera è la prova migliore della stima in cui deve avervi ogni uomo di cuore”.
- Mio marito! - esclamava Maria con una strana intonazione di voce. - Ma mio marito è felicissimo! La rendita sale e scende per fargli piacere, i bachi sono andati bene, le commissioni piovono da ogni parte. C'è un cinquanta per cento di utili netti! - Erminia la stava a guardare a bocca aperta. - Senti, bambina, tu hai la febbre. Mesciamoci del the -. Due giorni dopo, per guarire della febbre, che le aveva trovato la sua Erminia, le disse: - Andrò in Brianza con Rinaldi. L'aria, l'ossigeno, la quiete, il canto degli usignoli, la famiglia... Che peccato non ci abbia dei bambini da cullare! -
Là, sotto gli alberi folti, di faccia ai larghi orizzonti, sentiva una strana irritazione contro quella pace che la invadeva lentamente, suo malgrado, dal di fuori. Andava spesso sulle balze pittoresche verso il tramonto, a sciuparsi gli stivalini, e a montarsi la testa di proposito con dei sentimenti presi a prestito nei romanzi. Polidori aveva avuto il buon gusto di eclissarsi con garbo, restando a Milano, senza far nulla di teatrale e di convenzionale, come uno che sa mettere della cortesia anche a farsi dimenticare. - Né ella avrebbe saputo dire se pensasse ancora a lui; ma provava delle aspirazioni indefinite, che nella solitudine le tenevano compagnia, l'avviluppavano mollemente e tenacemente in quell'inerzia pericolosa, e parlavano per lei nel silenzio solenne che la circondava, e l'uggiva. Ella sfogavasi a scrivere delle lunghe lettere alla sua amica, vantandole le delizie ignorate della campagna, la squilla dell'avemaria fra le valli, il sorger del sole sui monti; facendole il conto delle ova che raccoglieva la castalda, e del vino che si sarebbe imbottigliato quell'anno. - Parlami un po' più dei tuoi libri e delle tue corse a cavallo, - rispondeva la Erminia. - Di' a tuo marito che non ti lasci andare al pollaio, o che ci venga anche lui -. E un bel giorno, dopo un certo silenzio, si mise in viaggio, un po' inquieta, e andò a trovare la sua Maria. - T'ho fatto paura? - le disse costei. - M'hai creduto un'anima desolata in via di annientarsi? - No. T'ho creduto una che si annoia. Qui e una vera Tebaide: non c'è che da darsi a Dio o al diavolo. Vieni con me, a Villa d'Este. Voi mi permettete che ve la rubi, non è vero, Rinaldi? - Ma io desidero che ella si diverta e sia allegra -.
A Villa d'Este c'era davvero da stare allegri: musica, balli, regate, corse sui vaporini, escursioni nei dintorni, un mondo di gente, bellissime toelette, e Polidori, il quale era l'anima di tutti i divertimenti. La signora Rinaldi non sapeva che ci fosse anche lui; e Polidori, se avesse potuto prevedere la sua venuta, le avrebbe reso il servigio di non farsi trovare a Villa d'Este. Ma oramai aveva accettato certo incarico nell'organizzare le regate, e non poteva muoversi senza dar nell'occhio prima che le regate avessero avuto luogo. Egli fece capire tutto ciò alla signora Rinaldi, brevemente e delicatamente, la prima volta che si incontrarono nel salone, facendole in certo modo delle scuse velate, e scivolando sul passato con disinvoltura. Maria, superato quel primo istante di turbamento, si era sentita rinfrancare non solo, ma, per una strana reazione, il contegno riservato di lui le metteva in corpo degli accessi matti d'ironia. Egli diceva che sarebbe partito subito dopo le regate, perché aveva promesso di trovarsi con alcuni amici in Piemonte, per una gran caccia, e veramente gli rincresceva lasciare tante belle signore a Villa d'Este. - Davvero? - domandò la signora Rinaldi con un certo risolino. - Chi le piace dippiù? - Ma... tutte, - rispose tranquillamente Polidori, - la sua amica Erminia per esempio -. Proprio! Ella non ci aveva mai pensato: la sua amica Erminia doveva far girare la testa ai signori uomini a preferenza di ogni altra, col suo visino piccante, e il suo spirito di diavolessa; così noncurante degli omaggi a cui era avvezza naturalmente - e marchesa per sopramercato - di quelle marchese che portano la loro corona sì fieramente, che ogni mortale sarebbe lietissimo di farsi accoppare per coglierle un fiore. Colla sua Erminia erano sempre insieme, sul lago, sul monte, nel salone, sotto gli alberi. Adesso ella la osservava come se la vedesse per la prima volta; la studiava, la imitava e qualche volta anche le invidiava dei nonnulla. Senza volerlo, aveva scoperto che la sua Erminia, con tutte le sue arie da regina, era un tantino civetta, di quella civetteria che non impegna a nulla, ma contro la quale nondimeno tutti gli uomini vanno a rompersi il naso. Era un affar serio! Non si poteva fare un passo senza trovarsi fra i piedi Polidori, il bel Polidori, corteggiato come un re da tutte quelle signore, il quale senza aver l'aria di avvedersene comprometteva orribilmente l'Erminia - il peggio era che non se ne avvedeva neppur lei, e che tutti non accettavano ad occhi chiusi le risate che ella ne faceva. La signora Rinaldi pensava che se non fosse stato un tasto tanto delicato, ella l'avrebbe fatto suonare all'orecchio della sua amica, e le avrebbe fatto osservare che suono falso rendeva.
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