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STORIA DELL'ASINO DI S. GIUSEPPE 14 часть
- Prestatemi due lire per la spesa del viaggio, padron Mariano -. Ma il capoccia rispondeva: - Aspettate prima se vi portano un buona notizia. Alle volte, intanto che voi siete per via, vostra moglie guarisce, e voi ci perdete la spesa del viaggio -. L'Orbo invece consigliava di far dire una messa alla Madonna di Primosole, ch'è miracolosa. Finché giunse la notizia che da comare Menica c'era il prete. - Vedete se avevo ragione? - esclamò padron Mariano. - Cosa andavate a fare, se non c'era più aiuto? - La bambina se l'era tolta in casa comare Stefana, per carità; e compare Cosimo era rimasto a Primosole col sul ragazzo. Tanto, l'Orbo gli diceva che, coll'aiuto di Dio, poteva vivere e morire alla chiatta al pari di lui, che vi mangiava pane da cinquant'anni. E ne aveva vista passare tanta della gente! Passavano conoscenti, passavano viandanti che nessuno sapeva donde venissero, a piedi, a cavallo, d'ogni nazione, se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume. - Come l'acqua del fiume stesso che se ne andava al mare, ma lì pareva sempre la medesima, fra le due ripe sgretolate: a destra le collinette nude di Valsavoia, a sinistra il tetto rosso di Primosole; e allorché pioveva, per giorni e settimane, non si vedeva altro che quel tetto tristo nella nebbia. Poi tornava il bel tempo, e spuntava del verde qua e là, fra le rocce di Valsavoia, sul ciglio delle viottole, nella pianura, fin dove arrivava l'occhio. Infine veniva l'estate, e si mangiava ogni cosa, il verde dei seminati, i fiori dei campi, l'acqua del fiume, gli oleandri che intristivano sulle rive, coperti di polvere.
La domenica, cambiava. Lo zio Antonio, che teneva l'osteria di Primosole, faceva venire il prete per la messa, e mandava Filomena, la sua figliuola, a scopare la chiesetta, e a raccattare i soldi che i devoti vi buttavano dentro dal finestrino, per le anime del Purgatorio. Accorrevano dai dintorni, a piedi, a cavallo, e l'osteria si riempiva di gente. Alle volte arrivava anche il Zanno, che guariva di ogni male, colle sue scarabattole; o don Tinu, il merciaiuolo, con un grande ombrellone rosso, e schierava la sua mercanzia sugli scalini della chiesa, forbici, temperini, nastri e refe d'ogni colore. Nanni si affollava insieme agli altri ragazzi per vedere. Ma suo padre gli diceva sempre: - No, figliuolo mio, questa roba è per chi ha denari da spendere -. Gli altri invece comperavano: bottoni, tabacchiere di legno, pettini di osso, e Filomena frugava dappertutto colle mani sudice, senza che nessuno le dicesse nulla, perché era la figliuola dell'oste. Anzi un giorno don Tinu le regalò un bel fazzoletto giallo e rosso, che passò di mano in mano. - Sfacciata! - dicevano le comari. - Fa l'occhio a questo e a quello per amor dei regali! - Un giorno Nanni li vide tutti e due dietro il pollaio, che si tenevano abbracciati. Filomena, che stava all'erta per timore del babbo, si accorse subito di quegli occhietti che si ficcavano nella siepe, e gli saltò addosso colla ciabatta in mano. - Cosa vieni a fare qui, spione? se stai a raccontare quel che hai visto, guai a te, veh! - Ma don Tinu la calmava con belle maniere: - Non lo strapazzate quel ragazzo, comare Mena, ché gli fate pensare al male -. Però Nanni non poteva levarsi dagli occhi il viso rosso di Filomena, e le manacce di don Tinu che brancicavano. Quando lo mandavano a comperare il vino all'osteria, si piantava dinanzi al banco della ragazza, che glielo mesceva colla faccia tosta, e lo sgridava: - Guardate qua, cristiani! Non gli spuntano ancora i peli al mento, quel moccioso, e ha già negli occhi la malizia! - Nanni voleva far lo stesso colla Grazia, la servetta dell'osteria, quando andavano insieme a raccoglier l'erbe per la minestra, lungo il fiume. Ma la fanciulla rispondeva: - No. Tu non mi dai mai niente -. Essa invece gli portava, nascoste in seno, delle croste di formaggio, che gli avventori avevano lasciato cadere sotto la tavola, o un pezzetto di pane duro rubato alle galline. Accendevano un focherello fra due sassi, e giocavano a far la merenda. Ma Nanni finiva sempre il giuoco col buttar le mani sulla roba, e darsela a gambe. La ragazzetta allora rimaneva a bocca aperta, grattandosi il capo. E alla sera si buscava pure gli scapaccioni di Filomena, che la vedeva tornare spesso colle mani vuote. Nanni, per risparmiarsi la fatica, le arraffava anche la sua parte di cicoria o di finocchi selvatici. Poi, il giorno dopo, giurava colle mani in croce che non l'avrebbe fatto più. E la poverina ci tornava sempre, appena lo vedeva da lontano, coi capelli rossi in mezzo alle stoppie gialle; si accostava quatta quatta, e gli si metteva alle calcagna come un cane. Quand'essa arrivava piagnucolando ancora per le busse che s'era buscate all'osteria, Nanni per consolarla le diceva: - E tu perché non scappi, e te ne vai a casa tua? - Egli raccontava che aveva la sua casa anche lui, laggiù al paese, e i parenti e ogni cosa: di là da quelle montagne turchine; ci voleva una giornata buona di cammino, e un giorno o l'altro ci sarebbe andato. - Pianta i tuoi padroni e l'osteria, e te ne scappi a casa tua -. La ragazzetta ascoltava a bocca aperta, colle gambe penzoloni sul greto asciutto, guardando attonita là dove Nanni le faceva vedere tante belle cose, oltre i monti turchini. Infine si grattava il capo, e rispondeva: - Non so. Io non ci ho nessuno -. Egli intanto si divertiva a tirar sassi sull'acqua; o cercava di far scivolare Grazia giù dalla sponda, facendole il solletico. Poi si metteva a correre, ed egli la inseguiva a zollate. Andavano pure a scovare i grilli dalle tane, con uno sterpolino; o a caccia di lucertole. Nanni sapeva coglierle con un nodo scorsoio fatto in cima a un filo di giunco sottile; dentro al cerchietto che formava il nodo spuntava una bella campanella lucente, e le povere bestioline, assetate in quell'arsura, si lasciavano adescare.
In mezzo alla gran pianura riarsa il fiume s'insaccava come un burrone enorme, fra le rive slabbrate. - Mostrava le ossa, - brontolavano quelli della chiatta. Talché anche i poveri diavoli ci si arrischiavano a guado, qualche miglio più in su. Tanti baiocchi levati di bocca a quegli altri poveri diavoli che stavano colla fune in mano tutto il giorno, sotto il solleone. E litigavano fra di loro, a digiuno. Nanni allora per un nulla si buscava delle pedate anche da suo padre, sciancato com'era. Di tanto in tanto passava una frotta di mietitori, che tornavano al mare, bianchi di polvere, e si calavano nel greto, uomini e donne, colle gambe nude, raccomandandosi ai loro santi, nel dialetto forestiero. Poi nell'afa della strada, diritta diritta, si vedeva venire da lontano il polverone che accompagnava qualche carro, o spuntava dall'altra parte la sonagliera mezza addormentata di un mulattiere. L'Orbo, che non aveva nessuno al mondo, e se l'era girato tutto, diceva: - Quello lì viene da Catania, quest'altro da Siracusa -. E sempre cuor contento, lui, raccontava agli uomini stesi bocconi le meraviglie che aveva visto laggiù, lontano lontano. E Nanni ascoltava intento, come aveva fatto la Grazia ai racconti che lui sballava, con delle allucinazioni di vagabondaggio negli occhi stanchi di vedere eternamente l'osteria dello zio Antonio, che fumava tutta sola, nella tristezza del tramonto. Ma chi gli mise davvero la pulce nell'orecchio fu il Zanno, una volta che lo chiamarono per lo zio Carmine al Biviere. Fin da Pasqua di Rose, i viandanti che venivano a passar la notte allo stallatico, e non lo vedevano, come al solito, a portar la paglia dal fienile o a riscuotere lo stallaggio, dicevano: - E compare Carmine? - Zio Mommu lo mostrava con un cenno del capo, lungo disteso nel pagliericcio, sotto un mucchio di bisacce; e Misciu, col cappuccio in capo, mangiato dalle febbri anche lui soggiungeva: - Ha la terzana -. Alle volte, quando alla voce riconosceva un conoscente, lo zio Carmine rispondeva con un grugnito: - Son qua. Sono ancora qua -. Erano quasi sempre le stesse facce stanche che si vedevano passare, dinanzi al lumicino moribondo appeso al travicello, e tiravano fuori dalla bisaccia la scarsa merenda, accoccolati su di un basto, masticando adagio adagio. Lo zio Carmine non brontolava più, non si moveva più dalla sua cuccia, zitto e cheto. Soltanto quando udiva fermarsi alla porta una vettura, rizzava il capo come poteva, per amor del guadagno, e chiamava: - O Misciu! - Però non potevano lasciarlo morire a quel modo, come un cane. Ventura, Mangialerba, e spesso anche compare Cosimo, tirandosi dietro la gamba storpia, venivano apposta da Primosole, e stavano a guardare compare Carmine lungo disteso, con la faccia color di terra, come un morto addirittura. Infine risolvettero di chiamargli la Gagliana, quella vecchietta che faceva miracoli, a venti miglia in giro. - Vedrete che la Gagliana vi guarirà in un batter d'occhio, - andavano dicendo a lui pure. - È meglio di un dottore quel diavolo di donna. Cosa ne dite, compare Carmine? - Compare Carmine non diceva né sì né no, pensando al denaro che si sarebbe mangiato la Gagliana. Però nel forte della febbre tornava a piagnucolare: - Chiamatemi pure la Gagliana, senza badare a spesa. Non mi lasciate morire senza aiuto, signori miei! - La Gagliana la battezzò febbre pericolosa, di quelle che è meglio mandare pel prete addirittura. Giusto era sabato, e passava gente che tornava al paese. Tutto ciò gli rimase fitto in mente, a Nanni ch'era andato a vedere anche lui: i curiosi che dall'uscio allungavano il collo verso il moribondo; la Gagliana che cercava nelle tasche il rimedio fatto apposta, brontolando; e il malato che guardava tutti ad uno ad uno, cogli occhi spaventati. L'Orbo, a canzonare la Gagliana che non sapeva trovare il rimedio, le domandava: - Cosa ci vuole per farmi tornare la vista? - Lo zio Carmine morì la notte istessa. Peccato! perché la domenica poi si trovò a passare il Zanno, il quale ci aveva il tocca e sana per ogni male! nelle sue scarabattole. Lo menarono appunto a vedere il morto. Ei gli toccò il ventre, il polso, la lingua, e conchiuse: - Se c'ero io, lo zio Carmine non moriva! - Raccontava pure molte cose dei miracoli che aveva fatto, tale e quale come la Gagliana, dei paesi che aveva visti, e come Nanni ascoltava a bocca aperta, gli piacque quel ragazzetto, e gli disse, accarezzandogli i capelli rossi: - Vuoi venire con me? Mi porterai la balla e ti farai uomo. - Egli ha tutt'altra balla da portare! - sospirò compare Cosimo; e pensava nel tempo stesso che se gli succedeva una disgrazia, come quella di compare Carmine, il suo ragazzo restava in mezzo a una strada. C'era anche l'oste di Primosole, il quale maritava Filomena con Lanzise, uomo dabbene che non sapeva nulla, e tornavano tutti da Lentini pel contratto, gli sposi, compare Antonio ed altra gente. Lanzise era uno che ci aveva il fatto suo, terra, buoi, e un pezzo di vigna lì vicino alla Savona, dicevano.
Il matrimonio fece chiasso. Talché venne anche don Tinu a vender roba pel corredo. La sera mangiava all'osteria come al solito. Non si sa come, a motivo di un conto sbagliato, attaccarono lite collo zio Antonio, e don Tinu gli disse: - becco! - Compare Antonio era un omettino cieco d'un occhio, che al vederlo non l'avreste pagato un soldo. Però si diceva che avesse più di un omicidio sulla sua coscienza, e a venti miglia in giro gli portavano rispetto. Al sentirsi dire quella mala parola sul mostaccio da don Tinu, il quale aveva una faccia di minchione, andò a staccare lo schioppo dal capezzale, per spifferar le sue ragioni anche lui, mentre la moglie, che la malaria inchiodava in fondo a un letto da anni ed anni, rizzatasi a sedere in camicia, strillava: - Aiuto che s'ammazzano, santi cristiani! - E Filomena, per dividerli, buttava piatti e bicchieri addosso a don Tinu, gridando: - Birbante! ladro! scomunicato! - Che vi pare azione d'uomo cotesta, compare Antonio? - rispose don Tinu più giallo del solito. - Io non ho altro addosso che questo po' di temperino. - Avete ragione, - disse lo zio Antonio. - Vi risponderò colla stessa lingua che avete in bocca voi -. E andò a posare lo schioppo senza aggiunger altro. Più tardi Nanni andava all'osteria per il vino, quando vide venirsi incontro don Tinu tutto stralunato, che si guardava attorno sospettoso. - Te' due soldi, - gli fece, - e và a dire a compare Antonio che l'aspetto qui, per quella faccenda che sa lui. Ma che nessuno ti veda, veh! - La sera trovarono compar Antonio lungo disteso dietro una macchia di fichidindia, col suo cane accanto che gli leccava la ferita. - Che è stato, compare Antonio? Chi vi ha dato la coltellata? - Compare Antonio non volle dirlo. - Portatemi sul mio letto, per ora. Se poi campo ci penso io; se muoio ci pensa Dio. - Questo fu don Tino che me l'ammazzò! - strillava la moglie. - L'ha mandato a chiamare con Nanni dello zoppo! - E Filomena badava a ripetere: - Birbante! ladro! scomunicato! - Compare Cosimo, che aveva una gran paura della giustizia, se la prese anche lui col suo ragazzo, il quale si ficcava in quegli imbrogli. - Se ti metto le mani addosso voglio romperti le ossa! - andava gridando. E Nanni perciò se ne stava alla larga, dall'altra parte del fiume, col ventre vuoto, come una bestia inselvatichita. Grazia lo vide da lontano, coi capelli rossi, dietro l'abbeveratoio a secco, e corse a raggiungerlo. - Ora me ne vado col Zanno, - disse lui, - e alla chiatta non ci torno più -. Poscia, rassicurato a poco a poco, vedendo che dietro il muro non spuntava lo zio Cosimo col bastone, si mise a sgretolare la sponda dell'abbeveratoio, tutta fessa e scalcinata, un sasso dopo l'altro, e dopo li tirava lontano; mentre la ragazzetta stava a guardare. Tutt'a un tratto s'accorsero che il sole era tramontato, e la nebbia sorgeva tutt'intorno, dal fiume e dalla pianura. - Senti! - disse Grazia. - Lo zio Cosimo che chiama! - Nanni se la diede a gambe senza rispondere, e lei s'affannava a corrergli dietro, colla vesticciuola tutta sbrindellata che svolazzava sulle gambette nude. Camminarono un bel pezzo, e infine si trovarono soli, nella campagna buia, col cuore che batteva forte, lontano lontano dalla capanna delle chiatte, dove si udiva ancora cantare l'Orbo. Era una bella notte piena di stelle, e dappertutto i grilli facevano cri-cri nelle stoppie. Come Nanni si fermò, vide Grazia che gli veniva dietro. - E tu dove vai? - le disse. Essa non rispose. E tornarono a udirsi i grilli tutt'intorno. Non si udiva altro. Solo il fruscìo del grano in spiga al loro passaggio; e appena si fermavano ad ascoltare cadeva un gran silenzio, quasi il buio si stringesse loro ai panni. Di tanto in tanto correva una folata di ponente caldo, come un'ombra, sull'onda del seminato. Allora Grazia si mise a piangere. Passava un vetturale coi suoi muli; e la piccina a piagnucolare: - Portateci al paese, vossignoria, per carità! - Il mulattiere, ciondoloni sul basto, borbottò qualche parola mezzo addormentato, e tirò di lungo. E i due fanciulli dietro. Arrivarono a uno stallatico, e si accoccolarono dietro il muro ad aspettare il giorno. Quando Dio volle spuntò l'alba, e un gallo si mise a cantare d'allegria sul mucchio di concime. Da un sentierolo fra due siepi sbucò un vecchietto, con una bisaccia piena in spalla. Aveva la faccia buona, e Grazia gli domandò: - Per andare al paese, vossignoria, da che parte si va? - Lo zio Mommu accennò di sì col capo, e seguitò per la sua via, col naso a terra. Si misero dietro a lui, che andava a vendere la sua roba al paese, e arrivarono sulla piazza che era giorno chiaro. C'era già una donnicciuola imbacuccata in una mantellina bianca, la quale vendeva verdura e fichidindia. Delle altre donne entravano in chiesa. Davanti lo stallatico salassavano un mulo; e dei contadini freddolosi stavano a guardare, col fazzoletto in testa e le mani in tasca. In alto, nel campanile già tutto pieno di sole, la campana sonava a messa. Essi andarono a sedere tristamente sul marciapiede, accanto al vecchietto con cui erano venuti, e che s'era messo a vender anatre e gallinelle che nessuno comprava, aspettando il Zanno che non veniva neppur lui. Il tempo passava, e passava anche della gente che veniva a comprare la verdura dalla donnicciuola colla mantellina, pesandola colle mani. Da una stradicciuola spuntarono due signori, col cappello alto, passeggiando adagio adagio, e si fermarono a contrattare lungamente, toccando la roba colla punta del bastone, senza comprar nulla. Poi venne la serva della locanda a prendere una grembialata di pomodori. Sulla piazza facevano passeggiare innanzi e indietro il mulo salassato. Infine lo speziale chiuse la bottega, mentre sonava mezzogiorno. Allora lo zio Mommu tirò dalla bisaccia un pane nero, e si mise a mangiarlo adagio adagio con un pezzo di cipolla. Vedendo i due ragazzi che guardavano affamati, gliene tagliò una gran fetta per ciascuno, senza dir nulla. Infine raccolse la sua mercanzia, e se ne andò a capo chino, com'era venuto. Ora rimanevano soli e sconsolati. Si presero per mano e arrivarono sino alla fontana ch'era in fondo al paesetto. Per la strada che scendeva a zig zag nella pianura arrivava gente a ogni momento. Donne che venivano ad attinger acqua, vetturali che abbeveravano i muli, e coppie di contadini che tornavano dai campi, chiacchierando a voce alta, colle bisacce vuote avvolte al manico della zappa. Poi una mandra di pecore, in mezzo a un nuvolo di polvere. Un frate cappuccino, che tornava dalla cerca, saltò a terra da una bella mula baia, schiacciata sotto il carico, e si chinò a bere alla cannella, tutto rosso, sguazzando nell'acqua la barbona polverosa. Quando non passava alcuno, venivano delle cutrettole a saltellare sui sassi, in mezzo alla fanghiglia, battendo la coda. Lontano si udiva la cantilena dei trebbiatori nell'aia, perduta in mezzo alla pianura che non finiva mai, e cominciava a velarsi nelle caligini della sera. E in fondo, come un pezzetto di specchio appannato, il Biviere. - Guarda com'è lontano! - disse Nanni col cuore stretto. Il sole era già tramontato; ma non sapevano dove andare, e rimanevano aspettando, l'uno accanto all'altra seduti sul muricciuolo, nel buio. Infine si presero per mano e tornarono verso l'abitato. Nelle case luccicava ancora qualche finestra; però i cani si mettevano a latrare, appena i due ragazzi si fermavano presso a un uscio, e il padrone minaccioso gridava: - Chi è là? - La fanciulletta scoraggiata buttò le braccia al collo di Nanni. - No! No! - piagnucolava lui, - lasciami stare -. Trovarono una tettoia addossata a un casolare, e vi passarono la notte, tenendosi abbracciati per scaldarsi. Li svegliò lo scampanìo del paese in festa, che il sole era già alto. Mentre andavano per via, guardando la gente che usciva vestita in gala, scorsero in piazza don Tinu il merciaiuolo, colle sue scarabattole di già in mostra, sotto l'ombrellone rosso. - Signore don Tinu, - gli disse Grazia tutta contenta. - Benvenuto a vossignoria! - Don Tinu si accigliò e rispose: - O tu chi sei? Io non ti conosco -. La fanciulletta si allontanò mogia mogia. Ma don Tinu vide il ragazzetto, che guardava da lontano timoroso, e gli disse: - Tu sei quello dell'osteria del Pantano, lo so. - Sissignore, don Tinu, - rispose Nanni col sorriso d'accattone. E tutto il giorno gli ronzò intorno, affannato, sul marciapiede. Quando vide che don Tinu raccoglieva la sua mercanzia, e stava per andarsene, si fece animo, e gli disse: - Se mi volete con voi, vossignoria, io vi porterò la roba. - Va bene, - rispose don Tinu. - Ma la tua compagna lasciala stare pei fatti suoi, ché non ho pane per tutti e due -. Grazia scorata, si allontanò passo passo, colle mani sotto il grembiule, e poi si mise a guardare tristamente dall'altra cantonata, mentre Nanni se ne andava dietro al merciaiuolo, curvo sotto il carico.
Un buon diavolaccio, quel don Tinu. Sempre allegro, anche quando gli lasciava andare una pedata o uno scapaccione. In viaggio gli raccontava delle barzellette per smaliziarlo e ingannare la noia della strada a piedi. Oppure gli insegnava a tirar di coltello, in qualche prato fuori mano. - Così ti farai uomo, - gli diceva. Giravano pei villaggi, da per tutto dov'era la fiera. Schieravano in piazza la mercanzia, su di una panchetta, e vociavano nella folla. C'erano trecconi, bestiame, gente vestita da festa; e il Zanno che faceva veder l'Ecceomo, e si sbracciava a vendere empiastri e medaglie benedette, a strappare denti, e a dire la buona ventura, ritto su un trespolo, in un mare di sudore. I curiosi facevano ressa intorno, a bocca aperta, sotto il sole cocente. Poi veniva il santo colla banda, e lo portavano in processione. Dopo, tutta la giornata, le donne stavano sugli usci, cariche d'ori, sbadigliando. La sera accendevano la luminaria e facevano il passaggio. Don Tinu ripeteva: - Se restavi alla chiatta, con tuo padre, le vedevi tutte queste cose, di'? -
Capitarono anche una volta al paese di Nanni, il quale non ci si raccapezzava più, dopo tanto tempo, e passando davanti alla sua casa vide un ballatoio che non ci era prima, e della gente che non conosceva, e vi stava pei fatti suoi. Cercò anche dei parenti. Il fratello, Pierantonio, era lontano, camparo alle Madonìe, laggiù verso la marina; e la sorella, Benedetta, s'era maritata, un buon partito che le aveva procurato comare Stefana, dotandola coi suoi denari, e facevano tutti una famiglia, in una bella casa nuova, col terrazzino e il letto col cortinaggio, che quasi non volevano lasciarvi entrare quel vagabondo. Pure donna Stefana, per politica, come seppe chi era e donde veniva, gli fece dar da colazione, pane vino e companatico, in un angolo della tavola, che egli subito disse grazie, perché le due donne sembrava che gli contassero i bocconi, sua sorella ritta sull'uscio colle mani sul ventre e l'orecchio teso per sentire se capitava il marito, guardando di sottocchio donna Stefana come fosse sulle spine. - No e sì - sì e no. - Le parole cascavano di bocca, e il pane e il companatico pure. Toccarono appena del babbo e del fratello che erano lontani, uno di qua e l'altro di là, e tacquero subito perché poco avevano da dire, dopo tanto che non si erano visti. Benedetta anzi non aveva neppure conosciuto il babbo, come fosse figlia del peccato. - Questa povera orfanella, - disse forte donna Stefana, - non ha avuto nessuno al mondo, né amici né parenti. Dillo tu stessa, figliuola mia. Se non ero io, come ti trovavi? - Benedetta disse di sì, con un'occhiata riconoscente. Poi guardò il fratello, e chinò gli occhi. Infine gli chiese se contava di fermarsi molto, in paese, dandogli del voi, sempre cogli occhi bassi. Donna Stefana invece gli ficcava addosso i suoi, quasi volesse frugarlo sotto i panni, con certe occhiate sospettose che covavano le posate. Appena fuori dell'uscio si sentì dar tanto di catenaccio dietro le spalle. - Queste son cose che succedono, - disse poi don Tinu, quando seppe com'era andata la visita alla sorella. - Il mondo è grande, e ciascuno pei fatti suoi -.
Andavano pel mondo, di qua e di là, per fiere e per villaggi, sempre colla roba in collo, sicché infine una volta capitarono a Primosole, dopo tanto tempo. - Ora ti faccio vedere tuo padre, s'è ancora al mondo, - disse don Tinu. Nanni non voleva, fra la vergogna e la paura; ma il merciaio soggiunse: - Lascia fare a me, che le cose le so fare -. E andò avanti a prevenire compare Cosimo ch'era sempre lì, alla chiatta, su di un piede come le gru. - Ecco vostro figlio Nanni, compar Cosimo, che è venuto apposta per baciarvi le mani -. Lo zio Cosimo aveva la terzana, e stava lì, al sole, appoggiato alla fune, col fazzoletto in testa, aspettando la febbre. - Che il Signore t'accompagni, figliuol mio, e ti aiuti sempre -. Adesso ch'era stremo di forza, gli venivano i lucciconi agli occhi, vedendo che bel pezzo di ragazzo s'era fatto il suo Nanni. Costui narrava pure di Benedetta e del fratello, ch'era stato a cercarli; e il padre, tutto contento, scrollava, tentennava il capo, colla faccia sciocca. Una miseria, in quella chiatta: Ventura partito per cercar fortuna altrove; Mangialerba più che mai sotto i piedi della sua donnaccia, becco e bastonato, e l'Orbo sempre lo stesso, attaccato alla fune come un'ostrica e allegro come un uccello, che cantava nel silenzio della malaria, guardando il cielo cogli occhi bianchi. - Con me vostro figlio girerà il mondo, e si farà uomo. - ripeteva don Tinu. Anche lo zio Antonio, poveretto, non era più quello di prima, e stava lì, sull'uscio dell'osteria, inchiodato dalla paralisi sulla scranna, a salutar la gente che passava, colla faccia da minchione, per tirare gli avventori. - Benedicite, vossignoria. Che non mi riconoscete più, zio Antonio? - gli disse il merciaiuolo fermandosi a salutarlo. Lo zio Antonio accennava di sì col capo, come pulcinella. Allora don Tinu trasse fuori un bel sigaro e glielo mise nelle mani che tremavano continuamente, posate sulle ginocchia. Ma l'altro scosse il capo, accennando di no, che non poteva. Don Tinu, per cortesia, gli chiese infine di sua moglie, e di comare Filomena, che non si vedevano, nell'osteria deserta; e il vecchio, colle mani tremanti, accennò di qua e di là, lontano, verso il camposanto e verso la città. Per bere un sorso, dovettero sgolarsi a chiamare un ragazzaccio che compare Antonio s'era tirato in casa, onde fare andare l'osteria, e arrivò dall'orticello abbandonato, tutto sonnacchioso, fregandosi gli occhi, insaccato in un giubbone vecchio dello zio Antonio che gli arrivava alle calcagna. - Abbiamo fatto un'opera di carità, - osservò don Tinu nel pagare il vino bevuto. - Statevi bene, compare Antonio -.
Così era fatto don Tinu, colle mani sempre aperte, quando ne aveva, e il cuore più aperto ancora. Gli piaceva ridere e divertirsi, e aveva amici e conoscenti in ogni luogo. Spesso lasciava Nanni al negozio, diceva lui, e correva a godersi la festa di qua e di là colle comari (aveva comari da per tutto). Appena arrivava in un paese lo mandavano a chiamare di nascosto, e gli facevano trovare il desco apparecchiato dietro l'uscio, mentre il marito era alla processione colla testa nel sacco. Finché une volta, per la festa del Cristo, a Spaccaforno, portarono don Tinu a casa su di una scala, come un Ecceomo davvero. Era stata Grazia che era venuta a chiamarlo: - Signore don Tinu, vi aspettano dove sapete vossignoria -. Don Tinu esitava, grattandosi la barba. Non che avesse paura, no. Ma quella ragazza allampanata gli portava la jettatura, c'era da scommettere. Lei intanto rimaneva sull'uscio della bottega, sorridendo timidamente, col viso nella mantellina rattoppata. Nanni che da un pezzo non la vedeva, le disse: - O tu come sei qui? - Son venuta a piedi, - rispose Grazia, tutta contenta che le avesse parlato. - Son venuta a piedi da Scordia e Carlentini, perché laggiù morivo di fame. Ora fo i servizi a chi mi chiama -. S'era fatta grande, tanto che la vesticciuola sbrindellata non arrivava a coprirle del tutto le gambe magre; colla faccia seria e pallida di donna fatta che ha provato la fame: e due pèsche fonde e nere sotto gli occhi. Nanni che stava leccando col pane il piatto di don Tinu le disse: - Te'; ne vuoi? - Ma Grazia si vergognava a dir di sì. - Io sto con don Tinu, e faccio il merciaiuolo, - aggiunse Nanni. Ad un tratto egli si fece serio, guardandola fiso. - Entra! - La ragazza esitava, intimidita da quegli occhi. Nanni ripeté: - Entra, ti dico! sciocca! - E la tirò pel braccio chiudendo l'uscio. Ella obbediva tutta tremante. Poi gli buttò le braccia al collo. - Tanto tempo che ti volevo bene! - E ricominciò a narrar la storia del suo misero vagabondaggio: la fame, il freddo, le notti senza ricovero, gli stenti e le brutalità che aveva sofferto; seduta sulla balla della mercanzia, colla schiena curva, le braccia abbandonate sulle ginocchia, ma gli occhi lucenti di contentezza adesso, e una gran gioia che le si spandeva infine sul viso sbattuto e scarno. - Sai, tanto tempo che ti volevo bene! Ti rammenti? quando s'andava tu ed io per l'erbe della minestra a Primosole? e l'isolotto che lasciava il fiume quando era magra? e quella notte che abbiamo dormito insieme dietro un muro, sulla strada di Francofonte? Poi, quando tu te ne sei andato con don Tinu, e non sapevo che fare, né dove andare... Quella donna che vendeva i fichidindia, vedendomi ogni giorno a frugare nel mondezzaio, fra le bucce e i torsi di lattuga, mi dava ora una crosta di pane ed ora qualche cucchiaiata di minestra. Ma essa pure dovette andarsene, quando finì il tempo dei fichidindia, ed io partii con quello che faceva gente per la raccolta delle ulive, laggiù al Leone. Presi le febbri e mi mandarono all'ospedale. Dopo non mi vollero più perché dicevano che mi mangiavo il pane a tradimento. Sono stata anche a dissodare, dov'hanno fatto quella gran piantagione di vigne, al Boschitello; e ho lavorato allo stradone, e ci sarei tuttora a mangiar pane, se non fosse stato pel soprastante... -
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