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STORIA DELL'ASINO DI S. GIUSEPPE 16 часть



Il manoscritto era voluminoso, circa mezza risma di carta a mano, raccolta in una custodia di marocchino col titolo in oro sul dorso, e legata con nastri tricolori. L'autore leggeva con convinzione, sottolineando ogni parola col gesto, colla voce, con certe occhiate che andavano a ricercare l'ammirazione in volto alla Carolina, pallidissima, e al fratello di lei, impenetrabile dietro il palmo delle mani; si animava alle sue frasi istesse come un bàrbero allo scrosciare delle vesciche che porta attaccate alla coda; senza un minuto di stanchezza, quasi senza bisogno di voltar pagina. Le pagine volavano, volavano, con un fruscìo quasi di foglie secche d'autunno, nel gran silenzio della notte. Tutti i rumori della via erano cessati uno dopo l'altro. La luna alta si affacciava al finestrino.

C'era un punto in cui il protagonista del romanzo, disperato, forzava la consegna di uno stuolo di domestici in gran livrea, schierati in anticamera, e andava a bere la morte nell'alcova della sua bella appena tornata dal ballo, ancora in una nuvola di merletti e di pizzi. Egli la bollava con parole di fuoco, voleva offrirle, dea implacabile, l'olocausto del suo sangue, dei suoi sensi, del suo amore immensurabile, lì ai piedi dell'altare istesso, su quel tappeto di Persia, dinanzi a quel letto immacolato. E all'occhiata trionfante che faceva punto, l'autore vide con gioia crudele la sua ascoltatrice che piangeva cheta cheta, colla mano dinanzi agli occhi.

Ei le prese quella mano, e se la tenne sulle labbra a lungo per godere del suo trionfo.

- Perdonatemi! - mormorò poscia.

Ella scosse il capo dolcemente, e rispose con un filo di voce:

- No. Sono tanto felice! -

La luna dal finestrino baciava la parete dirimpetto, tacita. Al silenzio improvviso il maestro si destò.

Angelo Monaco prese a frequentare la casa del maestro, attratto dalla simpatia che vi trovava, lusingato da quell'ammirazione fervida, da quell'amore timido e profondo di cui la sua vanità era riconoscente in modo da simulare alle volte un ricambio dello stesso sentimento.

Carolina aspettava, felice, tutta piena di una vita nuova in mezzo alle solite modeste occupazioni, sorpresa da batticuori improvvisi, da dolcezze inesplicabili, per un nulla, per taluni avvenimenti consueti che prima non le avevano detto cosa alcuna, beandosi di uno sguardo, di un sorriso, di una parola, di una stretta di mano di lui, trepidante all'ora in cui egli soleva venire, commossa da una tenerezza ineffabile quando vedeva il raggio della luna sul finestrino, ogni quintadecima, al sentire la campana dell'avemaria, l'organetto che passava, la voce del fratello che pronunziava il suo nome, turbata solo da un imbarazzo insolito e da una nuova tenerezza per lui. Anch'egli le sembrava cambiato. Da qualche tempo la trattava con una dolcezza affettuosa e quasi triste, con un riserbo discreto e pietoso. Un giorno finalmente, al momento di uscire insieme ai ragazzi, col cappelluccio in testa e la mazzettina in mano, la chiamò in disparte, dietro la cortina rossa:

- ... Sai, Carolina... Sta per ammogliarsi... No! senti! Coraggio, coraggio!... Guarda che io ho lì i ragazzi... Perdonami se ti ho fatto dispiacere!... Toccava a me a dirtelo... Sono tuo fratello, il tuo Peppino!... -

Ella uscì nello stanzone, barcollante, come si sentisse soffocare, e balbettò dopo un momento:

- Come lo sai? Chi te l'ha detto?

- Masino, quel ragazzo, il figlio del caffettiere. Oggi, come l'incontrammo per caso, e vide che lo salutavo, mi ha detto che sposa sua sorella.

- Vai, vai, - disse la poveretta respingendolo colle mani tremanti. - I ragazzi aspettano -.

 

E fu tutto. Ella non aggiunse una parola, non gli mosse un lamento. L'ultima volta che la vide, Angelo la trovò così afflitta, così chiusa nel suo dolore, che ne indovinò il motivo. Sull'uscio del cortiletto, cogli occhi rivolti a quello spicchio di cielo e una lagrima vera negli occhi, egli le disse addio, commosso dall'accento suo stesso. Il giorno dopo le scrisse una lettera tutta fremente da un rigo all'altro d'amore e di disperazione, la prima in cui le parlasse d'amore, per dirle che il suo era fatale e doveva immolarlo sull'altare dell'obbedienza filiale. “Siate felice! siate felice! lontana o vicina, in vita e in morte!...” Fu la sola “missiva” d'amore che ella ricevesse, e la custodì gelosamente fra i fiori secchi ch'ei le aveva donati, e i nastri scolorati che portava il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta.

Poi, stanca, aveva riversato sul fratello le sue illusioni giovanili, rifacendo per lui i castelli in aria in cui s'erano passati i sogni ardenti della sua vita claustrale, subendo, sotto altra forma, le stesse calde allucinazioni che le erano rimaste di tante bizzarre letture, nelle quali si era consunta la sua giovinezza, dietro il tramezzo della scuola, com'era morto il geranio che aveva agonizzato dieci anni nel cortiletto senza sole. Una volta era stata una rosa che essa aveva sorpreso nel portapenne della scrivania, e s'era sfogliata senza che lei osasse toccarla, lasciandole un grande sconforto a misura che le foglioline si sperdevano nella polvere. Un'altra volta un bigliettino profumato, visto alla sfuggita sul tappetino della scrivania, scomparso subito misteriosamente, che l'aveva fatta almanaccare un mese, turbandola anche, mentre stava chiuso nel cassetto, col suo odore sottile, finché le era caduto un'altra volta sotto gli occhi, fra le cartacce inutili da buttare via nel cortiletto - la stessa corona dorata in cima al foglio profumato, lo stesso carattere elegante con cui un ragazzo si faceva scusare dalla mamma non so quale mancanza.

 

Un giorno infine il romanzo sembrò disegnarsi, al giungere di una superba bionda che era venuta a prendere un ragazzetto pallido in una carrozza signorile, riempiendo tutta la scuola del fruscìo della sua veste, del profumo del suo fazzoletto, del suono armonioso della sua voce fresca e ridente come un raggio di sole che avesse abbarbagliato maestro e discepoli. La povera zitellona per molti giorni ancora, alla stessa ora, aveva aspettata la bella seduttrice, nascosta dietro la tenda del tramezzo, col cuore che le batteva forte, sconvolta sino alle viscere e come violentata da un delizioso segreto, da un turbamento strano, in cui si mescevano una tenerezza nuova pel fratello, un senso di vaga gelosia, e una contentezza, un orgoglio segreto.

Erano reticenze discrete, silenzi pudichi, imbarazzi scambievoli, per un cenno, per una parola, per un'allusione lontana che cadesse nel discorso, mentre sedevano a tavola, l'uno di qua e l'altra di là di un lembo del tappetino ripiegato, mentre rifacevano tutti i giorni la stessa conversazione vuota e insignificante del giorno innanzi, ripetendo le stesse frasi monotone che compendiavano la loro esistenza scolorita ed uniforme, a voce bassa, con una certa timidezza vergognosa.

Egli chinava il capo arrossendo, come sorpreso sul fatto; e giurava di no, facendo una scrollatina di spalle, gongolando dentro di sé, con un sorrisetto di vanagloria che gli tremolava sulle labbra.

Alle volte, in un'effusione improvvisa di tenerezza riconoscente, le posava la destra sul capo, con quello stesso sorrisetto discreto che pareva dicesse:

- Stai tranquilla, scioccherella! -

Però, nella rettitudine istintiva della sua coscienza, la zitellona sentiva nascere una ripugnanza, un'inquietudine dolorosa per tutto ciò che doveva esserci di losco e di pericoloso in quel romanzo clandestino. Allora correva a buttarsi ai piedi del confessore, nel nuovo fervore religioso in cui si era rifugiata quando aveva provato il più gran dolore della sua giovinezza, lo sconforto e l'abbandono d'ogni lusinga terrena, e domandava perdono per la dolce colpa che lei non aveva commesso, faceva la penitenza del peccato immaginario che era nella sua casa.

E calda ancora di quel fervore vi attingeva il coraggio per esortare il fratello a rientrare nel retto sentiero con delle allusioni velate, delle insinuazioni discrete, un'effusione di tenerezza timida e quasi materna.

- Peppino! - gli disse infine, - dovresti darmi una gran consolazione. Dovresti risolverti a prender moglie -.

Egli rizzò il capo, sorpreso prima, e poscia lusingato dalla proposta che gli toglieva vent'anni d'addosso, obbiettando col medesimo ingenuo entusiasmo della sua prima giovinezza che “il matrimonio è la tomba dell'amore” per farsi pregare ancora.

- Dammi retta, Peppino!... Poi quando non sarai più in tempo te ne pentirai!... -

Egli si ostinava a scrollare il capo, lusingato internamente di poter rifiutare per la prima volta; senza notare l'espressione dolorosa che c'era nell'accento della povera zitellona.

- No, non mi lascio pescare. Stai tranquilla. Amo troppo la mia libertà! -

Ella provava un senso strano di simpatia, di commiserazione, e di rancore per quel fanciulletto esile e pallido che la dama bionda era venuta a cercare, e che supponeva fosse il complice innocente della loro tresca. Lo covava cogli occhi da lontano, nascosta dietro la tenda, quasi egli portasse alla scuola, nei sereni lineamenti infantili, un riflesso delle seduzioni tentatrici della mamma, inquieta se lo scolaretto mancava qualche volta, almanaccando tutto un romanzo domestico dai menomi atti del ragazzo inconsapevole. Se lo chiamava vicino, quando poteva farlo da solo a solo, lo accarezzava, lo interrogava, gli faceva qualche regaluccio insignificante, attratta e ripugnante nello stesso tempo della sua grazia infantile. Un giorno il fanciulletto, tutto contento, le disse:

- Dopo le vacanze non vengo più a scuola -.

Ella gli chiese il perché, balbettando.

- La mamma dice che ora son grande. Andrò in collegio -.

Così terminò anche quel romanzo. Ella ne sentì prima un gran sollievo; ma nello stesso tempo un dubbio, uno sconforto amaro, vedendo dileguarsi anche le ultime illusioni, che aveva collocate sul fratello.

 

Il male che la rodeva da anni e anni la inchiodò infine nel letto. Il povero maestro non ebbe più un'ora di pace: sempre in faccende anche nei brevi istanti che la scuola gli lasciava liberi, scopando, accendendo il fuoco, rifacendo i letti, correndo dal medico e dallo speziale, coi baffi stinti, le scarpe infangate, il viso più incartapecorito ancora. Le vicine, mosse a compassione, venivano a dare una mano: ora l'una ed ora l'altra: donna Mena, la vedova del merciaio, con tutti gli ori addosso, come se andasse a nozze; e l'Agatina del falegname, lesta di mano e sempre allegra, che riempiva della sua gaia giovinezza la povera casa triste; talché il vecchio scapolo era tutto scombussolato da quelle gonnelle che gli si aggiravano per casa, tentato, anche in mezzo alle sue angustie, quasi da un ritorno di giovinezza, da sottili punture nel sangue e al cuore, che gli cocevano come un rimorso, nelle ore nere.

 

- Meglio, meglio. Ha riposato -.

Il poveraccio, al trovare quella buona notizia sulla soglia, le afferrò la mano tremante e la baciò.

- Oh, donna Mena. Che consolazione! -

Essa gli fece segno di tacere e lo condusse in punta di piedi a veder l'inferma, che riposava con una gran dolcezza sul viso, già lambito da ombre funebri. E come se la dolcezza di quell'istante di tregua gli si fosse comunicata, affranto dall'angoscia che aveva trascinato insieme ai suoi ragazzi da un capo all'altro della città, egli cadde a sedere sulla seggiola dietro la cortina, senza lasciare la mano di donna Mena, che la svincolò adagio adagio. La stanza era già oscura, con un senso di intimità misterioso e triste.

Ad un tratto la sorella svegliandosi lo chiamò, indovinando ch'era lì, e per la prima volta egli accendendo il lume si trovò imbarazzato dinanzi a lei insieme a un'altra donna.

Era stata una crisi terribile: la prima lotta colla morte che già abbrancava la preda. L'inferma, tornata in sé, guardava il lume, le pareti, il viso del fratello con certi occhi attoniti in cui durava ancora la visione di terrori arcani, e lo accarezzava col sorriso, col soffio della voce, colla mano tremante, in un ritorno di tenerezza ineffabile, che si attaccava a lui come alla vita.

E allorché furono soli, gli disse pure con quell'accento e quello sguardo singolari:

- No quella!... Quella no, Peppino! -

 

Verso l'agosto sembrò che cominciasse a stare alquanto meglio. Il sole giungeva fino al letto, dall'uscio del cortile, e la sera entravano a far compagnia tutti i rumori del vicinato, il chiacchierìo delle comari, lo stridere delle carrucole, nei pozzi tutto intorno, la canzone nuova che passava, l'accordo della chitarra con cui il barbiere dirimpetto ingannava l'attesa. La ragazza del falegname entrava con un fiore nei capelli, con un sorriso allegro che portava la gioventù e la salute.

- No, no, non ve ne andate ancora! Vedete il bene che fa a quella poveretta soltanto a vedervi!

- Si fa tardi, signor maestro. È un'ora che son qui.

- No, non è tardi. A casa vostra lo sanno che siete qui. Piuttosto dite che vi aspettano le compagne, lì sull'uscio.

- No, no.

- O l'innamorato, eh? Sarà l'ora in cui suole passare col sigaro in bocca...

- Oh... che dite mai, vossignoria!...

- Sì, sì, una bella ragazza come siete... è naturale. Chi non si innamorerebbe, al vedere quegli occhi... e quel sorriso... e quel visetto furbo.

- Ma cosa gli salta in mente adesso?... -

E un giorno s'arrischiò anche a dirle, nel vano dell'uscio tutto illuminato dalla luna:

- Ah! foss'io quel tale!

- Lei, signor maestro!... Che dice mai! -

L'emozione lo prendeva alla gola, mentre la ragazza, per rispetto, non osava ritirare la mano che le aveva afferrata. E traboccarono frasi sconnesse: L'amore che eguaglia: la poesia ch'è profumo dell'anima: i tesori d'affetto che si cristallizzano nelle anime timide: la divina voluttà di cercare il pensiero e il volto dell'amata nel raggio della luna, a un'ora data. - La ragazza lo guardava quasi impaurita, con grand'occhi spalancati, e tutta bianca nel raggio della luna.

- Non dimenticherò mai quest'ora che mi avete concesso, Agata! Né questo nome! mai! Divisi, lontani... ma ricorderemo... entrambi...

- Mi lasci andare, mi lasci andare. Buona sera -.

 

L'inferma, appoggiata a un mucchio di guanciali, chiacchierava sottovoce col fratello, seduto accanto al letto, ancora col cappello in testa e la mazzettina fra le gambe. Pareva che avesse a dirgli una cosa importante, dai silenzi improvvisi che le soffocavano la parola in gola, dalle occhiate lunghe che posava su lui, dai rossori fugaci che passavano sul pallore del viso disfatto. Infine, chinando il capo, gli disse:

- Perché non ci pensi ad accasarti?

- No, no! - rispose lui, scrollando il capo.

- Sì, ora che sei in tempo... Devi pensarci finché sei giovane... Poi, quando sarai vecchio... e solo... come farai? -

Il fratello, sentendosi vincere dalle lagrime, conchiuse, per tagliar corto:

- Non è tempo di parlarne adesso! -

 

Però essa ritornava spesso sullo stesso argomento.

- Se trovassi una bella giovinetta, ricca, istruita, di buona famiglia, che facesse per te... -

 

E una sera che si sentiva peggio torno a parlargliene ancora, coll'inquieto cicaleccio proprio del suo stato.

- No, lasciami dire, ora che ho un po' di fiato. Non posso permettere che ti sacrifichi per tenermi compagnia... tutta la tua giovinezza... Una buona dote non può mancarti. E se lasci la scuola, tanto meglio. Vivremo tutti insieme; faremo una casa sola. Uno stanzino mi basterà, purché sia molto arioso. Vorrei che fosse verso il giardino. Della strada non so che farmene, oramai... Ho sempre desiderato di vedere il cielo, stando in letto... e del verde, degli alberi... come, per esempio, averci una finestra là dove c'è ora la cortina, una finestra che guardasse nei campi... -

Si udiva la pioggia che scrosciava nel cortiletto, una di quelle piogge che annunziano l'autunno, e la pentola di latta, lasciata fuori, che risonava sotto la grondaia. Un gatto, nella bufera, chiamava ai quattro venti, con voce umana.

Il maestro, che aveva seguìto il vaneggiare della sorella verso il verde ed il sole, coll'allucinazione perenne che era in lui, le chiese affettuosamente:

- Ora che viene l'autunno saresti contenta d'andare in campagna?

- E la scuola? - ribatté lei con un sorriso malinconico. - Se tu pigliassi una buona dote invece... con dei poderi...

- Benedette donne! quando si ficcano un chiodo in testa!... - rispose lui con un sorrisetto malizioso.

E pareva esitare a decidersi. Ma dopo averci pensato su, finì col dire:

- Non mi vendo, no! -

E abbottonò il soprabito con dignità.

- Se ho da fare una scelta... Se mai... È inutile! - conchiuse finalmente. - Amo troppo la mia libertà! -.

Ella insisteva a dire che queste cose si fanno finché uno è giovane, che se no si finisce in mano della serva o di qualche intrigante.

Poi, siccome il fratello non voleva arrendersi, la zitellona si lasciò scappare in un impeto di gelosia, alludendo alle vicine:

- Vedi che già ti si ficcano in casa, e cominciano a fare dei disegni su di te? -

E la poveretta morì col crepacuore di lasciare il fratello esposto alle insidie di quelle intriganti.

 

Com'ella aveva fatto un gran vuoto in quel bugigattolo, per quanto poco spazio vi avesse occupato in vita, e il fratello vi si sentiva come perduto in una gran solitudine, in una gran desolazione, nelle ore che i ragazzi gli lasciavano libere, prese ad andare dal falegname, tutte le sere, attratto da una gratitudine dolce e malinconica verso la ragazzona che aveva avuta tanta carità per la sua povera morta. Ma il falegname, che certe cose non le intendeva, gli fece capire che in bottega del maestro di scuola non sapeva che farsene, e gli facesse invece il piacere di levarsi di quei trucioli.

Anche donna Mena, qualche tempo dopo, quando vide che le visite del maestro si facevano troppo frequenti, col pretesto dell'Aloardino, e non finiva mai di ringraziarla dell'assistenza che aveva fatta alla sua povera sorella, per stringerle la mano e farle gli occhi di triglia, gli disse sul mostaccio:

- Orsù, signor maestro, facciamo a parlarci chiaro, ché il vicinato comincia a mormorare dei fatti nostri -.

Il poveraccio, colto alla sprovvista, si confuse. Ma infine prese il suo coraggio a due mani:

- Or bene, donna Mena! Anche quella poveretta l'aveva previsto. Non ho voluto decidermi mai a fare questo passo, perché amavo troppo la mia libertà... Ma ora che vi ho conosciuta meglio... se volete...

- Eh, non li avevate fatti male i vostri conti, caro mio, poiché siete stanco d'andare attorno coi ragazzi! Ma il fatto mio ce lo siamo lavorato io e la buon'anima di mio marito... E non per farcelo mangiare a tradimento -.

 

Ogni giorno, mattina e sera, tornava a passare il maestro dei ragazzi, con un fanciulletto restìo per mano, gli altri sbandati dietro, il cappelluccio stinto sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti color caffè, la faccia rimminchionita di uno ch'è invecchiato insegnando il b-a-ba, e cercando sempre l'innamorata, col naso in aria.

Soltanto, tornando a casa serrava a chiave l'uscio, per scopare la scuola, rifare il letto, e tutte le altre piccole faccenduole per le quali non aveva più nessuno che l'aiutasse. La mattina, prima di giorno, accendeva il fuoco, si lustrava le scarpe, spazzolava il vestito, sempre quello, e andava a bere il caffè nel cortiletto, seduto sulla sponda del pozzo, tutto solo e malinconico, col bavero del pastrano sino alle orecchie. Ed ora che la povera morta non ne aveva più bisogno, risparmiava anche quei due soldi di latte.

UN PROCESSO

 

All'Assise discutevasi una causa capitale. Si trattava di un facchino che per gelosia aveva ucciso il suo rivale, giovane dabbene e padre di famiglia. La folla inferocita voleva far giustizia sommaria dell'assassino, pallido e lacero dalla lotta, che i carabinieri menavano in prigione. La vedova dell'ucciso era venuta, come Maria Maddalena, per chiedere giustizia a Dio e agli uomini, in lutto, scarmigliata, coi suoi orfani attaccati alla gonnella, mentre l'usciere andava mostrando ai signori giurati l'arma con cui era stato commesso l'omicidio: un coltelluccio da tasca, poco più grande di un temperino, di quelli che servono a sbucciare i fichidindia, ancora nero di sangue sino al manico. Il presidente domandò:

- Con questo avete ucciso Rosario Testa? -

Tutti gli occhi si volsero alla gabbia dov'era rinchiuso l'imputato, un vecchio alto e magro, dal viso color di cenere, coi capelli irti e bianchi sulla fronte rugosa. Egli ascoltava l'accusa senza dir verbo, col dorso curvo; e seguiva cogli occhi l'usciere, il quale passava dinanzi al banco dei giurati col coltello in mano. Soltanto batteva le palpebre, quasi la poca luce che lasciavano entrare le persiane chiuse fosse ancora troppo viva per lui.

Alla domanda del presidente si rizzò in piedi, diritto, col berretto ciondoloni fra le mani, e rispose:

- Sissignore, con quello -.

Corse un mormorio nell'uditorio. Era una giornata calda di luglio, e i signori giurati si facevano vento col giornale, accasciati dall'afa e dal brontolio sonnolento delle formule criminali. Nell'aula c'era poca gente, amici e parenti dell'ucciso, venuti per curiosità. La vedova, stralunata, si teneva sul viso il fazzoletto orlato di nero, e faceva frequentemente un gesto macchinale, come per ravviare le folte trecce allentate, colle mani bianche, levando in aria le braccia rotonde, con un moto che sollevava il seno materno, orgoglio della sua bella giovinezza vedovata. E fissava sitibonda sull'uccisore gli occhi arsi di lagrime.

Costui non sapeva risponder altro che: - sissignore - a tutte le domande del presidente che gli stringevano il capestro alla gola, guardando inquieto i movimenti d'indignazione dei giurati, non avvezzi alla severa impassibilità della toga, con un'aria di bestia sospettosa. Incominciò la sfilata dei testimoni, tutti a carico. - Gli amici del morto, un buon diavolaccio, incapace di far male ad una mosca, - la vedova piangeva. - I vicini che l'avevano visto barcollare, come preso dal vino, e cadere balbettando: - Mamma mia! - Quelli che avevano gridato: - All'assassino! - Il coraggioso che aveva afferrato pel petto l'omicida, prima che giungessero le guardie, nella brusca e feroce lotta per lo scampo.

- Giustizia! giustizia! - gridava nella folla la vedova, colla voce del sangue che chiedeva sangue, accompagnata dal piagnisteo degli orfani, inteneriti dalla solennità.

Infine fu introdotto un testimonio sinistro, l'amante che quei due uomini si erano disputata a colpi di coltello: una creatura senza nome, senza età, quasi senza sesso, alta, nera, magra, mangiata dagli stenti e dal vizio, che solo le era rimasto vivo negli occhi arditi. - Destò un senso di ripugnanza al solo vederla. - Il pubblico accusatore l'aveva fatta venire appunto per ciò.

Ella si piantò tranquillamente in faccia al Cristo, alla legge, a tutti quei visi arcigni, colla sicurezza di chi ha visto in maniche di camicia gli sbirri e i doganieri, e giurò, levando la mano sudicia e nera verso il crocifisso d'avorio, come avrebbe fatto una vergine dinanzi all'altare, baciando lo scapolare bisunto che trasse dal seno cascante.

- Come vi chiamate?

- La Malerba -.

E siccome l'uditorio, nell'attesa tragica, s'era messo a ridere, quasi per ripigliar fiato, ella soggiunse:

- Anche lui, gli dicevano Malannata -.

E indicò l'imputato nel banco.

- Di chi siete figlia?

- Di nessuno.

- Quanti anni avete?

- Non lo so.

- Che professione fate? -

“Essa parve cercare la parola.”

- Donna di mondo, - disse infine.

Scoppiò un'altra risata nell'uditorio. Il presidente impose silenzio scampanellando.

- Sì, donna di mondo, - ribatté lei per spiegarsi meglio. - Ora con questo, e ora con quell'altro.

- Basta, abbiamo capito, - interruppe il presidente.

- Conoscete da molto tempo l'imputato?

- Sissignore. Questo qui me l'ha fatto lui, tre anni sono -.

E indicò fieramente uno sfregio che le segnava la guancia, dall'orecchio sinistro al labbro superiore.

- E non ve ne querelaste?

- No. Era segno che mi voleva bene.

- Foste presente all'uccisione di Rosario Testa?

- Sissignore. Fu alla Marina: il giorno di tutti i Santi.

- E ne sapete il motivo?

- Il motivo fu che Malannata era geloso...

- Geloso di Testa?

- Sissignore.

- E a ragione?

- Sissignore -.

Allora la vedova si celò il viso fra le mani.

- Com'è possibile che Rosario Testa, giovane, marito di una bella donna, gli desse ragione d'essere geloso... per voi?

- Com'è vero Dio, questa è la verità, - rispose la Malerba.

- Va bene, continuate.

- Avevo conosciuto quel poveretto... il morto, prima di quest'altro cristiano, molto tempo prima, prima ancora che si maritasse. Allora mi chiamavano la Mora dei Canali, Rosario Testa faceva il fruttaiuolo, lì alla Peschiera. Era un libertino, buon'anima. Le lavandaie dei Canali, le serve che venivano a far la spesa, con quella sua galanteria di far regali, se le pigliava tutte. Ma per me specialmente ci aveva il debole, ché una volta alla festa dell'Ognina gli ruppero la testa per via di un marinaio ubriaco che mi voleva. Poi seppi che si maritava e mutava vita. Andò a stare a San Placido col suo banchetto. Né visto né salutato. Io mi misi con Malannata, sì, ch'erano i giorni del colèra.

Buon uomo anche lui, buono come il pane, e se lo levava di bocca, quel poco che guadagnava, per darlo a me. Ma geloso come il Gran Turco: “Dove sei stata? Cosa hai fatto?” E poi si picchiava la testa con un sasso, pentito delle botte che mi dava. Quell'annata del colèra, che tutti scappavano via e si moriva di fame davvero, egli voleva anche mettersi a beccamorto, per non farmi fare la mala vita, col castigo di Dio che si aveva addosso. Si lasciava morire di fame piuttosto che mangiare del mio guadagno.

Sì, glielo dico in faccia, ora che l'avete a condannare, perché questa è la verità dinanzi a Dio. Mi diceva, poveretto: “No, non me ne importa. È che penso al come lo guadagni, questo pane, e non posso mandarlo giù”. Ma io che potevo farci? Poi lui lo sapeva che cosa io ero. “Non importa”, tornava a dire: “almeno non ci voglio pensare”. Ma aveva i suoi capricci anche lui, come una donna, e certuni non me li voleva attorno. Allora diventava come un pazzo; si strappava i capelli e si rosicava le mani, perché non era più giovane. Quando mi vedeva insieme al doganiere del molo, che era un bell'uomo, colla montura lucida, mi diceva: “Vedi questo quattrino arrotato, che io tengo in tasca apposta? con questo ti taglierò la faccia, e dopo m'ammazzo io”. E lo fece davvero. Io gli dissi: “Che serve? Ora che m'avete sfregiata nessuno mi vorrà, e non sarete più geloso” -.

S'interruppe, con un orribile sorriso di trionfo, guardando sfrontatamente in giro il presidente, i giurati, i carabinieri, cinghiati di bianco, incrociando sul petto il vecchio scialle, con un gesto vago.

- Ma non fu così, signor presidente. Mi volevano ancora, per sua bontà. Già gli uomini, sono come i gatti...

- E anche Rosario Testa? -

Ella chinò il capo, assentendo, due o tre volte, con quel sorriso.

- Sissignore, anche lui! -

La vedova adesso la guardava cogli occhi ardenti e feroci, le labbra pallide come le guance.

- V'ho detto ch'era un discolo, buon'anima. E anch'io, al rivederlo, mi sentivo tutta fiacca, come m'avesse fatto bere. Dicevo di no, perché Malannata era lì vicino, a scaricar zolfo nel magazzino dietro la Villa, e tante volte mi aveva detto lui pure: “Bada che se torni con Rosario, vi faccio la festa a tutti e due”. Ma l'amore antico non si scorda più, vossignoria!

- Basta. Dite come avvenne l'omicidio.

- Così, come ve lo dico adesso, signor presidente, col coltello dei fichidindia, quello lì.

- Testa era armato?

- Lui? povero ragazzo! Mi aveva invitato a' fichidindia, una galanteria delle sue, lì, al banco di Pocaroba, che ce li ha di quelli di Paternò, sino a Natale. Pocaroba dice: “Badate che Malannata è in sospetto. L'ho visto che si affaccia ogni momento alla porta del magazzino, e tien d'occhio compare Rosario”. E Testa: “Lasciatelo guardare, compare Pocaroba, che me ne rido di Malannata e del suo santo”. Allora lasciai stare i fichidindia, e cercavo di condurmi via l'altro; quand'ecco quel cristiano lì correre dall'arco della ferrovia, tutto bianco di zolfo, e cogli occhi come uno che ha bevuto, e in due salti ci fu addosso; afferrò il coltello, dal banco dei fichidindia, prima di dire Gesù e Maria...



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