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STORIA DELL'ASINO DI S. GIUSEPPE 8 часть



Erano stati a mangiare e a bere all'osteria dei “Buoni Amici”, lì in San Calimero, e l'Orbo aveva raccattato pure il Basletta e Marco il Nano - pagava Tonino.

Dopo, pettoruto per la spesa che aveva fatto, disse: - S'ha da andare al Carcano? - che c'era veglione quella sera. Ma subito rientrato in sé si pentì della scappata, e contava nella tasca adagio adagio i soldi che gli restavano.

Gli altri lo sbeffeggiavano. - Hai paura della mamma, neh? o della Barberina che ti tratta a sculacciate, come un bambino? - Già se loro andavano al veglione il biglietto lo pagavano a spintoni, tutti e tre ragazzi che gli bastava l'animo di passare sotto il naso delle guardie col mozzicone in bocca. E lì in teatro brancicamenti e pizzicotti alle mascherine, che non cercavano altro, tanto che il Nano e Basletta escirono a cazzotti, nel tempo che Tonino aveva condotto a bere una Selvaggia, la quale leticava coi cappelloni ogni volta, a motivo di quel gonnellino di piume che sventolava come una bandiera. Al caffè, coi gomiti sul tavolino, si erano dette delle sciocchezze, e la Selvaggia ci rideva su, col petto che gli saltava fuori, dall'allegria. Tonino gli avrebbe pagata mezza la bottega, sinché ne aveva in tasca, tanto erano ladri quegli occhi tinti col carbone, e quel fiore di pezza nei capelli, che gli avevano fatto come un'imbriacatura. E gli proponeva questo, e gli proponeva quell'altro, come uno che se ne intendeva ed era del mestiere, tavoleggiante al caffè della Rosa, lì a San Celso. L'Orbo, accorso all'odor del trattamento, andava dicendo che Tonino era figlio della prima erbaiuola del Verziere, e poteva spendere. Ma la ragazza voleva tornare a ballare, to'! Era venuta pel veglione. Poi non aveva più sete; grazie tante; un'altra volta. Tonino più s'accendeva: - Ancora un valzer, bellezza! - E ci si metteva tutto, col suo bel garbo di giovane di caffè, pettinato a ricciolini, dimenando il busto, le gambe che s'intrecciavano a quelle di lei, e sotto il naso quel petto che gli infarinava il vestito. - Mi lasci andare, caro lei, in parola d'onore. Ci ho lì il mio ballerino che mi ha pagato il costume, quel turco che fa gli occhiacci. Se vuol venire a trovarmi sa dove sto di casa, a San Vittorello; cerchi dell'Assunta -.

Tonino, rosso come un gallo, gli avrebbe mangiato il naso a quel turco, anima sacchetta! L'Orbo, che gli stava alle costole non avendo altro da fare, lo calmava così:

- Finiscila, e andiamo a bere -.

Là fuori aspettavano Marco il Nano e Basletta, masticando un mozzicone di sigaro, e colle mani in tasca. Per scaldarsi andarono insieme dal Gaina. Tonino, che gli bruciava il sangue dal bere e dalla gelosia, ed anche di quel che gli dicevano che stesse sotto le gonnelle di sua sorella, sbraitava che voleva fare uno sproposito, porca l'oca! Voleva andare ad aspettare l'Assunta in barba al turco, proprio sulla sua porta, a San Vittorello! E gli altri, Marco il Nano e Basletta, a ridergli sul naso.

Lui, per mostrare che era in sensi, non l'avrebbero tenuto in quattro. - Lascia andare, via! A quest'ora non ci aprono più ti dico. Piuttosto andiamo dal Malacarne che ha il valpolicella buono! - Tonino, buon figliuolo, da un momento all'altro, dimenticava ogni cosa e si lasciava condurre dove volevano, allegro come un pesce, sgolandosi a cantare la Mariettina , e come incontravano delle maschere gli gridavano dietro delle porcherie.

Il Nano che aveva il vino donnaiuolo, tornò al discorso dell'Assunta, un bel tocco di ragazza, per bacco, con quel vestito da selvaggia! E allora Tonino s'infuriava coi compagni che non lo lasciavano andare dove gli pareva e piaceva, e lo tenevano davvero per un ragazzo! Così leticando, e colla lingua grossa, avevano fatto senza accorgersene il Corso di San Celso e via Maddalena, che Tonino alla cantonata si mise a correre per via San Vittorello, e voleva che gli aprissero a ogni costo, giacché di sopra c'era ancora il lume. Le donne al sentire i sassi alle finestre e i calci con cui picchiavano alla porta, si misero a gridare come se venissero ad accopparle, e non per altro.

Magnocchi il quale era ancora di sopra coi compagni, scese in istrada.

- Cosa venivano a cercare? Volevano un salasso pel vino che avevano in corpo? - Te lo darò io il salasso, barabba! -

Nel parapiglia si udì gridare: - Ahi! m'ammazzano! - E l'Orbo fu appena in tempo di buttar via la chiave con cui Tonino aveva rotto il capo a quell'altro, che il ragazzo, pallido come un morto, non sapeva da che parte scappare, e già si udivano gli stivali delle guardie.

Ai parenti andarono a dirglielo il giorno dopo, mentre la sora Gnesa disfaceva il banco, e la Barberina, fuori la baracca, guardava inquieta di qua e di là se spuntasse il fratello, perché il padrone del caffè l'aveva mandato a cercare. Fu l'Adele, la ragazza del barbiere che era venuta a vedere se ci avessero ancora due soldi di ravanelli rossi, per dopo tavola, e l'aveva sentita in bottega. - Hanno ammazzato quel che vende i nastri in via San Vittorello, e Tonino era nella rissa -. Per fortuna il Magnocchi non era morto; ma le donne, madre e figlia, si misero a strillare che Tonino li aveva precipitati. In un momento tutto il Verziere fu in rivoluzione. Barberina afferrò in mano le sottane, e via a chiamare il babbo, che solennizzava la domenica grassa dall'Ambrogio, il primogenito, il quale teneva pizzicheria in via della Signora. - Hanno arrestato Tonino in via San Vittorello! - Il sor Mattia, ancora male in gambe, prese il cappello per correre a San Fedele, e Ambrogio anche lui, scongiurando la sorella di chetarsi, per non rovinargli il negozio. In Questura li accolsero come cani, padre e figlio. Li lasciavano lì, sulla panchetta, senza che nessuno gli badasse, a far perdere tempo al pizzicagnolo, quella giornata, col cappello fra le mani. Il maresciallo che lo conosceva, gli disse burbero: - Torni domattina. Ha un bell'arnese di fratello, sa! -

Poi Tonino escì a libertà, col cappelluccio sulle ventitré. Alla sora Gnesa che piagnucolava e brontolava, rimbeccò: - Orsù! finitela, mamma! Che son stufo, veh! -

E accese la pipetta. La Barberina invece non voleva finirla. Gli strillava che era un boia, e loro marcivano sotto la tenda in Verziere per mantener il signorino in prigione e pagargli i vizi. Tanto che il fratello voleva darle due ceffoni, e fregarle quella sua faccia di pettegola colla sua stessa insalata, fregarle! In quella arrivò il babbo, e si rimise la pipa in tasca, mogio mogio.

- Brigante! - cominciò il sor Mattia. - Cattivo arnese! non vedi come si lavora noi, tua mamma, tua sorella e Ambrogio? Ti pare che abbiamo a mantenere i tuoi vizi? Prima che ti accoppino gli sbirri voglio strozzarti colle mie mani piuttosto! Voglio romperti le ossa!

- Ohè! - sclamava Tonino pallido come un cencio, e schermendosi coi gomiti. - Ohè! non giocate colle mani, babbo! non giocate! -

La sora Gnesa strillava peggio di un oca, e la Barberina faceva accorrere tutto il Verziere. Il babbo diceva le sue ragioni a tutti. Per dargli uno stato aveva messo Tonino cameriere al caffè della Rosa, uno dei primi, e il padrone era suo amico. Quando si fosse impratichito si poteva aprir bottega anche loro; Ambrogio pizzicagnolo, le donne erbaiuole, lui al banco, tutta un'architettura che faceva rovinare quello scapestrato! Il sor Mattia soffocava dalla bile. Per non lasciarsi andare a qualche sproposito se ne tornò in via della Signora.

Ambrogio corse a trovare il padrone del caffè, pregandolo di ripigliare Tonino, che era pentito e prometteva di far giudizio.

- Caro lei, è impossibile. Nel mio mestiere è un affare serio. Ora che in questura hanno preso gusto a vostro fratello, non mi piace di vedermi quelle facce tutto il giorno in bottega, che vengono a cercarmelo in cucina e dietro il banco. Ci va del mio negozio. Voi lo pigliereste? -

Ambrogio non voleva che suo fratello bazzicasse neppure nella sua bottega, dacché un questurino gli aveva battuto sulla spalla come a un vecchio amico.

Le donne, il babbo e tutti si sfogavano allora sul malcapitato, buono a nulla, che restava di peso alla famiglia, e nessuno lo voleva. - Ero buono soltanto quando portavo a casa i denari delle mance! - brontolava il ragazzone, che gli facevano mancare quel che si dice il bisognevole, e lo tenevano in casa come un pitocco.

Un giorno che Basletta lo incontrò a girandolare fra i banchi del mercato esclamò:

- Tò! Sei qui? È un pezzo che non ti si vede. Mi paghi da bere? -

Tonino rispose che non aveva soldi. I suoi di casa gli avevano fatte delle scene per quella storia di San Vittorello. Basletta, come passavano vicino alla baracca della sora Gnesa, adocchiò la Barberina che ammazzolava delle rape, colle belle braccia rosse, nude sino al gomito.

- Finiscila! - borbottò Tonino. - Non mi piacciono gli scherzi a mia sorella. -

- Guarda! adesso che sei stato in tribunale ti sei fatto permaloso! Non te la mangio mica tua sorella! Bel modo di accogliere la gente! -

Voleva condurlo a salutar gli amici, cent'anni che non lo vedevano. Tonino, nicchiava. - Bestia! pel conto che fanno di te i tuoi parenti! Piantali, via -.

Ai Buoni Amici trovarono l'Orbo, che voleva salutar Tonino anche lui, e giuocava a briscola in un cantuccio con dei carrettieri. Al Verziere non ci veniva più, perché la sora Gnesa lo accusava di guastargli il figliuolo, e Barberina gli faceva delle partacce. - Un gendarme, quella ragazza! - Poi dissero che volevano andare a cercare il Nano, il quale aveva disertato dai Buoni Amici dacché l'oste non gli faceva più credito.

Prima di scovare dove avesse dato fondo il Nano dovettero girare mezza dozzina d'osterie. Marco adesso era come un uccello sul ramo, dacché aveva piantato i Buoni Amici. L'Orbo, che aveva vinto a briscola, pagò due volte da bere. Poi col Nano si abbracciarono e baciarono come se uscissero tutti di prigione; e stavolta pagò il Nano.

- Voi altri, - conchiuse, - vi fate ancora rubare i quattrini da quel dei Buoni Amici. - Belli, quelli amici! Tutte guardie travestite, la sera! -

Sicché, per farla corta, escirono in istrada ch'era acceso il gas, e Basletta doveva ancora andare a fare la mezza giornata del lunedì col principale, che l'aspettava in via dei Bigli, - c'era da mettere dei tappeti, prima di sera, che arrivavano i padroni! - Orbè! - rispose il Nano. - Arriveranno senza tappeti, e il principale aspetterà. Io ho piantato il mio, e piglio lavoro in casa, quando capita, da ebanista. È che ci vogliono capitali. Ma intendo lavorare a modo mio -.

L'Orbo non gliene importava, perché s'era guadagnata la giornata a briscola. Egli non aveva mestiere fisso. Faceva di tutto, facchino, tosatore di cani, stalliere, sensale. Guadagnava dippiù, ed era libero come l'aria. - Viva la libertà! - esclamò Basletta. - Quando verrà la repubblica non ci saranno più né giovani né principali -.

E tutti e quattro andavano ciondolando sul bastione, cantando a squarciagola, e giuocando a spintoni verso il fossato.

Prima d'arrivare a Porta Romana videro luccicare nel buio le placche dei carabinieri. Risposero che tornavano dal lavoro. Tonino allora salutò la compagnia.

- Torna a casa, va, ragazzo! Se no la Barberina ti dà le sculacciate! - gli gridavano dietro.

- Dacché è stato a San Fedele quel ragazzo è diventato un pulcino bagnato, - disse l'Orbo. Ma ei non dava retta. All'Orbo, che lo stuzzicava più davvicino, gli diede una gomitata che quasi lo faceva ruzzolare nel fossato.

In casa aiutava al negozio delle donne. Si alzava di notte, per scaricare i carri degli ortolani, rizzava il banco, accendeva il caldaro per le bruciate. Più tardi scambiava delle barzellette coi banchi vicini, giuocava di mano colle servotte, pispolava alle ragazze che passavano. Poi sbadigliava e si stirava le braccia. Ogni giorno leticava colla sorella che gli lesinava il soldo per la pipa.

- Gli serve per quelle donnacce di via Pantano, che gli fanno pissi pissi dietro le persiane! - borbottava la Barberina. Ella non avrebbe dato un cavolo a credenza neppure al sor Domenico, il vinaio lì sulla cantonata, che era un uomo stagionato e facoltoso, e doveva sposarla. Tutta intenta al suo negozio, quella ragazza! Il sor Domenico stesso, alle volte, si muoveva a compassione del ragazzaccio, e gli dava il soldo ridendo. Tonino, rosso come un pomodoro, lo prendeva perché dovevano essere cognati; ma gli cuoceva dentro, perbacco!

- Lavora! - gli rinfacciava il sor Mattia. - Fa quello che facciamo noi, poltronaccio! - E non si sarebbe mosso per cento lire dal suo posto, accanto al banco del pizzicagnolo, colle mani in croce sul bastone.

Gli amici, ogni volta che incontravano Tonino, gli dicevano:

- O scioccone! non vedi che ti tengono peggio di un cane? Fossi in te li pianterei, loro e il pane che ti fanno sudare -.

L'Orbo aggiungeva che lui non voleva mischiarcisi, perché la Barberina minacciava di cavargli gli occhi, se lo vedeva bazzicare con suo fratello.

- Un accidente, quella ragazza! - Ora lui cercava di vivere in pace e avere il suo pane assicurato. S'era messo a fare il facchino in una drogheria. Un buon impiego, niente da fare, e qualcosa spesso da mettersi in tasca. Tonino giurava che a lui gli bastava l'animo di pestargli il muso come i gatti, a sua sorella. Volevano vedere?

Ai Buoni Amici era una vergogna dovere accettare sempre le gentilezze degli altri; o se facevano un litro alla mora, e gli toccava pagarlo, esser costretto a segnarlo sul muro, col carbone. Gli davano a credenza perché sapevano di chi era figlio, e che in fin dei conti avrebbe pagato. Inoltre s'ingegnava con le carte da giuoco, a briscola o a zecchinetta, talché alle volte andava a finire a pugni e a calci, e l'oste li cacciava tutti fuori, per non compromettere l'osteria. Già i questurini la tenevano d'occhio, a motivo di quelle facce che vi bazzicavano, e ogni volta che c'era da fare una retata per primo mettevano le mani ai Buoni Amici.

Aveva ragione il Nano di dire che quel posto era peggio del bosco della Merlata. Non si era mai sicuri d'andare a dormire nel suo letto, quando si passava la sera in quella bettola. Ma egli stesso vi era tornato per la malinconia di non poterne fare a meno. Là si radunavano l'Orbo, Basletta, ed altri amici dello stesso fare, che alle volte conducevano pure delle donne, e si stava allegri, mondo birbone!

A trovare il Basletta veniva spesso Lippa, una bruna alta appena così, ma col diavolo in corpo, e dicevano che doveva sposarla in estremis . Basletta brontolava quando lo chiappava a cena; ma ella gli ficcava le mani nel piatto senza domandare il permesso, e come non bastasse, alle volte, si tirava dietro anche la Bionda, magra e allampanata, che ci volevano gli spintoni per risolverla ad entrare, e si mangiava i piatti cogli occhi. Tonino stesso, per compassione, una volta l'aveva invitata, e così s'era fatta la conoscenza. Dopo venivano fuori a passeggiare all'aria aperta sul bastione.

- Mia sorella non vuol capirla che alla mia età ho bisogno di denari anch'io! - brontolava fra di sé. - Gli par che tutti non abbiano altro in mente fuori del negozio, come il suo vinaio.

- E tu ingégnati! - gli rispose l'Orbo. Marco il Nano in quei giorni aveva fatto un negozio, che arrivava sempre colle tasche piene, e gli altri ne parlavano sottovoce fra di loro. Le guardie di questura quando venivano a fiutare il vento, e vedevano che cambiavano discorso, o tacevano subito, battevano sulla spalla di Tonino, e gli ripetevano: - Bada bene, che ci torni a San Fedele! -

La Bionda, se leticavano sul bastione, perché Tonino era geloso, gli diceva colla faccia pallida: - Hai ragione, tò! ma io sono una povera ragazza, e bisogna che m'aiuti! - Lui si struggeva sentendosela spiattellare in faccia, con quella voce calma, e quegli occhi grigi che lo guardavano tranquillamente sotto il lampione. Spesso erano insieme, lui, l'Orbo e Marco il Nano colla Bionda, briachi tutti e quattro, che ogni volta allungavano le manacce Tonino avrebbe fatto un omicidio. E poi da solo ruminava ciò che gli rinfacciava la Barberina, che bisognava prima d'ogni altro ingegnarsi.

E s'ingegnò davvero. La Barberina non sapeva che dovesse ingegnarsi appunto col suo cassetto, una notte che tutti dormivano in bottega, e che si era messo a lavorare attorno al banco con un chiodo storto in punta. Fatto il tiro spalancò l'uscio, e si mise a gridare al ladro, come se la Barberina fosse donna da lasciarsi infinocchiare. Ma essa lo abbrancò pel collo, in camicia com'era, e voleva mandarlo in galera senza dar retta a lui che giurava e spergiurava, colle mani in croce, di non saper nulla. Accorsero la mamma, Ambrogio e il sor Mattia, a fargli vomitare il morto, e così lo cacciarono via nudo e crudo, che la Bionda, quando lo vide arrivare con quella faccia, non ebbe il coraggio di chiudergli l'uscio sul naso.

L'Orbo, che era diventato amico di casa, gli predicava: - Se vuoi vivere alle spalle di quella povera ragazza, sei un maiale ve'! -

Lei pure gli seccava d'averlo sempre attaccato alle sottane, che non gli lasciava mezz'ora di libertà colla sua gelosia; e lo mandava a lavorare. Egli sospettava che fosse per godersela insieme all'Orbo.

- Ti giuro che voglio bene soltanto a te! - rispondeva lei. - Ma che vuoi farci? Non son mica una signora! -

E lui se ne andava, col cuore stretto in un pugno.

Un bel giorno arrestarono il Nano e Basletta, per un furto di certi pacchi di candele nella drogheria dov'era l'Orbo, e Tonino pure, col pretesto che l'avevano trovato sul canto di via Armorari a far la guardia. Lui e il suo avvocato giuravano che era a far tutt'altro, e ci si trovava per una sua occorrenza. Ma fu inutile: lo condannarono alla prigione. Nel carcere però correva voce che la Bionda s'era messa coll'Orbo, e aveva fatto la spia per levarsi Tonino di fra i piedi, e papparsi le tre lire della denuncia. Tonino non voleva crederci; eppure il babbo, la mamma, suo fratello Ambrogio, persino la Barberina, erano venuti a visitarlo in carcere, rinfacciandogli che glielo avevano predetto. - Ma tant'è, erano venuti! E lui piangeva e si sentiva alleggerire il cuore. - Ma la Bionda no!

Dicevano che avevano visto l'Orbo coi panni di Tonino, una giacchetta a scacchi, che era ancora nel cassettone della Bionda, quando l'avevano arrestato.

GELOSIA

 

Il Bobbia disse fra di sé: - Voglio vedere se è vero, o no! - E si mise in agguato sul canto di San Damiano. Crescioni stava là di faccia: c'era il lume alla finestra. Verso le nove, come gli avevano detto, eccoti la Carlotta che passava il ponte, colle sottane in mano, e infilava la porta di Crescioni. Vi andava proprio in gala, quella sfacciata! Allora - sangue di Diana!... In quattro salti la raggiunse in cima al pianerottolo, ché lei volava su per le scale; e Crescioni se li vide capitar dentro in mazzo, Carlotta e il suo uomo, acciuffati pei capelli.

Successe un terremoto! Lui a scansar le bòtte; il Bobbia, colla schiuma alla bocca, che aveva tirato fuori di tasca qualche accidente; la Carlotta poi strillava per tutti e tre. Crescioni, svelto, ti agguanta la coperta del letto, già bello e preparato, e te l'insacca sul Bobbia, che se no, guai! Il sor Gostino, un pezzo d'uomo che avrebbe potuto fare il portinaio in un palazzo, menava giù nel mucchio, col manico della scopa, per chetarli.

Accorsero le guardie e li condussero in questura. Là, colle ossa peste, cominciarono a ragionare. Carlotta sbraitava che non era vero niente, in coscienza sua! Ma con quell'omaccio non voleva più starci, ora che l'aveva sospettata! Tanto non erano marito e moglie.

- Se non siete marito e moglie... - disse il Delegato.

- Dopo cinque mesi che si stava insieme come se lo fossimo! - rinfacciava il Bobbia. - Cosa gli è mancato in cinque mesi, dica, sor Delegato? E vestiti, e stivaletti, e scampagnate, le feste e le domeniche! Allora avrei dovuto aprire gli occhi, quando si perdeva nei boschetti a Gorla, con questo e con quello, sotto pretesto di cogliere i pamporcini. E lasciavo fare come fossimo marito e moglie!

- Io non ne sapevo nulla! - borbottò Crescioni, asciugandosi il sangue dal naso.

- Giacché non ne sapeva nulla, stia tranquillo che non pretendo restare a carico suo, se non mi vuole! - strillò Carlotta, inviperita nel passare in rassegna gli strappi del vestito nuovo.

Il sor Gostino, testimonio, metteva buone parole. - Via, non è nulla! Dev'essere un malinteso -. Ma il Bobbia s'era cacciato per forza in casa altrui, a fare il prepotente; e fu miracolo a cavarsela con un po' di carcere. - Tanto, non era vostra moglie! - profferì il Delegato. E il Bobbia rispose:

- Per me gliela lascio volentieri, quella gioia! Oramai ne sono stufo -.

L'amante si grattava il capo. Però Carlotta gli buttò le braccia al collo, dinanzi al sor Delegato, e gli giurò che d'ora innanzi voleva esser sua o di nessun altro.

Il sor Gostino l'aiutò a portar la roba dal Crescioni; ma intanto andava predicando che bisognava far la pace col Bobbia, appena usciva di prigione; se no, un giorno o l'altro, andava a finir male.

- Col Crescioni? - gridò poi il Bobbia. - Con quel traditore che mi faceva l'amico?...

- Bè! ora che s'è presa la Carlotta! Faccia conto che siano marito e moglie, e il torto glielo abbia fatto lei pel primo -.

Con questi discorsi non la finivano più, passo passo, dall'osteria di San Damiano alla porta del sor Gostino, sino a dopo mezzanotte, ciangottando colla lingua grossa. Una sera incontrarono la Carlotta a braccetto del Crescioni, e leticavano nel buio. Un'altra volta il Bobbia la vide che comprava della verdura dinanzi alla porta, e frugava nel carro dell'ortolano, colle braccia nude e spettinata. Talché pareva che gli fosse rimasto attaccato il cuore da quelle parti. Quando incontrava il Crescioni, aggobbito, colla barba di otto giorni che gli faceva il viso d'ammalato, si fregava le mani.

- Ci vuol altro che quel biondino per la Carlotta, ci vuole!

- Ogni giorno e' sono liti e bòtte da orbi, - narrava il sor Gostino. - Ieri ancora la è scappata nel mio casotto seminuda, ché il Crescioni voleva accopparla. Dice che lo fa per levarsela dattorno -.

La vigilia di Natale, come Dio volle, riescì a farli bere insieme. - Volete incominciare l'anno nuovo colla ruggine in corpo? - La Carlotta stava sulla sua, in fronzoli, e arricciando il naso a ogni bicchiere, perché c'era il Bobbia presente. Carina, con quella frangia di capelli sul naso! Ma Crescioni aveva il vino cattivo, stava ingrugnato, colle spalle al muro, e tossiva di malumore. - Gli avete portato via l'amante, al Bobbia! O cosa volete d'altro? - gli sussurrò all'orecchio il sor Gostino. Il Bobbia, invece, si sentiva tutto rammollire, e pagava una bottiglia dopo l'altra, senza batter ciglio.

- Mi rammento - disse alla Carlotta nell'orecchio, - mi rammento quando siamo andati insieme a casa mia, la prima volta -. E Crescioni, con tanto d'occhiacci, cavò fuori il mento dalla sciarpa. Poi la comitiva andò via insieme. Crescioni avanti, colle mani in tasca e annuvolato. Aprì lo sportello e fece passare prima la Carlotta, borbottando:

- Sto a vedere che mi vuoi fare col Bobbia quel servizio che gli ho fatto io! -

Il sor Gostino sogghignava pensando: - Questa notte la mi capita in camicia di certo -.

Al Bobbia raccontava in confidenza come la Carlotta gli piacesse anche a lui, per quel suo fare allegro. - Senza ombra di malizia, veh! - Fortuna che sua moglie stava sempre al primo piano, dal padrone, il quale non gliela lasciava un minuto solo. Se no, gelosa com'era, guai! - Il sor Gostino aveva una paura maledetta della sora Bettina, che l'aveva sposato e innalzato a portinaio perché da quarant'anni lei era tutta una cosa col padrone. Tanto che costui, quando leticavano fra marito e moglie, e si udivano nella corte gli improperi e le parolacce della sora Bettina, si affacciava al balcone, in pantofole, e strillava colla voce catarrosa: - Ohè, Gostino! Cosa l'è sta storia? -

Ma torniamo agli altri due. Crescioni voleva sposare la Carlotta sul serio, perché essa gli andava dicendo che stavolta era proprio necessario. - Almeno, - pensava lui, - sarò certo che il bambino è roba mia! -

Il sor Gostino strizzava l'occhio furbo: - E se cercate un padrino, ve l'ho già bello e trovato!

- Che discorsi! - gridava la sora Carlotta tentando di arrossire.

Il Bobbia era arrabbiato come un cane. Da un pezzo non la vedeva; e la Gigia, tabaccaia, dopo averlo menato pel naso una settimana o due, gli aveva risposto picche, sulla guancia. - Ah! di lui non voleva più saperne, la sora Carlotta, onde farsi sposare dal Crescioni? - Si sentiva la febbre addosso ogni volta che la vedeva, dal bugigattolo del sor Gostino, a menar la tromba, dimenando i fianchi, o a portar su l'acqua, colla pancia in fuori.

- Mi lasci andare ad aiutarla, sor Gostino. No, non ho più sete. Il resto lo beva lei per amor mio -. Ma la Carlotta scappava via appena lo vedeva.

- Andatevene! C'è lui in casa. Poi, tutto è finito fra di noi -. Avrebbe voluto batterla e afferrarla per quella collottola grassa che gli faceva bollire il sangue. - Ah! tu c'ingrassi con quel tisico! tu vuoi farmi morir tisico come lui! Che son fatto di stucco, ti pare?...

- Dovevate pensarci prima. To', questa vi calmerà i bollori -.

E Bobbia se ne andava scuotendo l'acqua dal vestito e bestemmiando.

Si fece il matrimonio. Nacque un bambino, due mesi prima del solito, e fu una femmina. Crescioni era sulle furie, perché almeno avrebbe voluto un maschio, e non dover pensare alla dote e a tante altre seccature.

- Quanto a ciò non si dia pena per sua figlia - lo confortava il sor Gostino - la farà come sua madre -.

Sua madre aveva fatto quello che sapevano tutti. S'era lasciata prendere dalle belle parole di un signorino, e dopo era scappata via di casa, per nascondere il marrone, accorgendosi che la mamma le ficcava gli occhi addosso senza dir nulla, e si sentiva salire le fiamme al viso. Fu un sabato grasso; giusto la Luisina era andata ad impegnare roba per fare il carnevale, e disse alla figliuola: - Cos'hai che non mangi? - con cert'occhi! Il giorno dopo trovarono l'uscio aperto; e il babbo, poveraccio, s'era dato al bere dal crepacuore. Che colpa ne aveva lei? Da fanciulletta era andata attorno per le strade e nei caffè, vendendo paralumi. - Come chi dicesse andare a scuola per apprendere il mestiere. - Poi la miseria, l'uggia di tornare a casa colla mercanzia tale e quale, via della Commenda, ch'era tutta una pozzanghera, la tentazione delle vetrine, i discorsi dei monelli, le paroline degli avventori che contrattavano soltanto... Insomma, era destinata!

Allorché il suo amante l'aveva piantata in via San Vincenzino, con quattro cenci nel baule e diciassette lire in tasca, era stata costretta a mettersi col Bobbia, il quale la teneva allegra, quando ne aveva da spendere, e la picchiava dopo, per via della bolletta. Crescioni, invece, non beveva, non bestemmiava, ed era sempre malinconico pensando alla sua poca salute. Ella era andata da lui a sfogarsi dei cattivi trattamenti, e poi c'era rimasta pel piacer suo. Quel giovanotto era preciso come lo voleva lei. Egli predicava: - Vieni di sera. - Vieni di nascosto. - Bada che lui non se ne accorga! - Tale e quale a un ragazzo pauroso dell'ombra sua. Sicché quando il Bobbia capitò a fare quel baccano, Carlotta non gliela perdonò mai più. Infine, cos'era stato? Suo padre stesso, quand'era scappata via di casa, non aveva fatto tanto chiasso. Eppure il danno era più grosso! - Per quel Crescioni, poi, ch'era quasi un ragazzo! - Sentite! - finiva lo sfogo col sor Gostino. - Fosse stato geloso di voi, o di qualche altro pezzo d'uomo, pazienza! Ma del Crescioni?... Veh! Tutta una birbonata del Bobbia per avere il pretesto di piantarmi... -

Il sor Gostino si fregava le mani. Non che ci avesse pel capo certe idee!... Poi con quell'accidente di sua moglie sempre sulla testa, alla finestra del padrone!... Perciò aveva preso l'abitudine di spazzar la scala sino in cima, allo scopo di non dar nell'occhio. - O che non leticate più con vostro marito? È un pezzetto che non vi vedo arrivare in sottanina -.

Appoggiava la scopa contro l'uscio, e si fregava le mani un'altra volta.

- No! Stia cheto con le mani! Adesso è finito il tempo delle sciocchezze!



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