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STORIA DELL'ASINO DI S. GIUSEPPE 15 часть
S'interruppe, facendosi rossa, e guardò Nanni timorosa. Ma a costui non gliene importava nulla. Le disse solo: - Vattene ora, ché sta per tornare il mio padrone -. La poveretta si lasciava spingere verso l'uscio, col capo chino sotto la mantellina rattoppata, balbettando: - Non ci ho colpa, ti giuro, per la Madonna Addolorata! Cosa potevo fare? Egli era il soprastante... Tu non c'eri più!... Non sapevo dov'eri nemmeno... - Sì, sì, va bene. Adesso vattene, ché sta per venire don Tinu, - ripeteva lui allungando il collo fuori dell'uscio, di qua e di là della straduccia, come un ladro. Infine la ragazza se ne andò adagio adagio, rasente al muro.
Poco dopo portarono a casa il merciaiuolo colle ossa rotte; ché lo zio Cheli, per combinazione, tornando prima del solito, aveva trovato don Tinu che gli faceva il pulcinella in casa. Il Zanno nel medicare il merciaiuolo andava predicando: - Coi villani ci vuole prudenza, don Tinu caro! ché son peggio delle bestie. Vetturali poi, Dio liberi!... - Ogni volta, quando gli capitava male, don Tinu si sfogava dopo col ragazzo, a calci e scapaccioni; tanto che agli strilli accorrevano l'oste e i viandanti, e il Zanno gli diceva: - Non gli dar retta, figliuol mio, perché il tuo padrone dev'essere ubriaco -. Il Zanno invece se voleva ubriacarsi si chiudeva nella sua stanzetta, faccia a faccia colla bottiglia. Non gridava, non picchiava nessuno, sempre con quel risolino furbo sulla faccia magra; e le donne venivano a cercarlo a casa sua di soppiatto, verso sera, imbacuccate sino al naso, e chiudeva a catenaccio. Tutto il giorno sempre allegro, a strappar denti senza dolore, vendere empiastri e intascar soldi. Nanni, allorché lo incontrava per le piazze, nelle bettole, andando di qua e di là per fiere e per paesi, gli ripeteva: - Vi rammentate, vossignoria, quando mi diceste se volevo venire con voi a fare il Zanno, quella volta che morì lo zio Carmine, allo stallatico del Biviere? - Il Zanno fingeva di non capire, perché non voleva aver questioni con don Tinu; ma infine, messo alle strette, si lasciò scappare: - Be', se il tuo padrone ti manda via, io non ci ho difficoltà a pigliarti con me -. Nanni se la legò al dito, e la prima volta che il merciaio si sciolse la cinghia per menargli la solfa addosso, gli disse brusco: - Don Tinu, lasciamo stare la cinghia, vossignoria, ché se no stavolta finisce male. - Ah, carogna! e rispondi anche! Ti farò vedere io come finisce!... - Lasciate stare la cinghia, don Tinu, o finisce male, vi ho detto -. E mise la mano in tasca. Don Tinu ch'era stato il suo maestro e gli vide la faccia pallida, mutò subito registro: - Ah, così rispondi al tuo padrone? Ora ti lascio morir di fame. Pigliati la tua roba, e via di qua -. Nanni raccolse i quattro cenci nel fazzoletto e conchiuse: - Benedicite a vossignoria -. E se ne andò a trovare il Zanno. - Bada che qui si guarda e non si vede: si ode e non si sente: si ha bocca e non si parla - gli disse il Zanno per prima cosa. - Se hai giudizio starai bene; se hai la lingua lunga andrai a darla ai cani, come quel re che aveva le orecchie lunghe e non poteva tenere una cosa sullo stomaco. Io non faccio chiacchiere né chiassi come don Tinu, bada! Marcia, torna e sparisci! E bravo chi ti trova! -
Menavano una vita allegra, ma sempre coll'orecchio teso e un piede in aria. Di notte, se picchiavano all'uscio, era un lungo tramestìo, un ciangottare dietro l'uscio, un andare e venire prima di tirare il catenaccio. Poi Nanni udiva il suo padrone che parlava con qualcuno sottovoce nell'altra stanza, e pestare nel mortaio; oppure erano strilli e pianti soffocati. Una notte, che non poteva chiudere occhio, vide dal buco della serratura il Zanno che intascava dei soldi, e una che gli parve Grazia, bianca come la cera vergine, la quale se ne andava barcollando. Ma il Zanno, appena gli chiese se era davvero Grazia, montò in furia come una bestia. - Tu sei troppo curioso, figliuol mio, e un giorno o l'altro ti finisce male -.
E gli finì male davvero, per un altro motivo. Un giorno, per la festa dell'Immacolata, appena rizzarono il trespolo sulla piazza di Spaccaforno, vennero gli sbirri e li acciuffarono tutti e due, cogli unguenti e gli elisiri, e li portarono al Criminale, accusati d'infanticidio. Ma allorché il Zanno vide Grazia sullo scanno, accusata insieme a loro, si mise a giurare e spergiurare colle mani in croce che non l'aveva mai vista né conosciuta, com'è vero Iddio! Ma c'erano testimoni che avevano visto quella ragazza con Nanni tempo fa, quando egli era passato un'altra volta da Spaccaforno con don Tinu il merciaio, nella settimana santa, anzi egli aveva chiuso l'uscio. Grazia, più morta che viva, balbettava: - Signor giudice, fatemi tagliare la testa, ché sono una scellerata! Prima feci il peccato e poi non seppi far la penitenza -. Era stato per la disperazione, dacché tutti la scacciavano come un cane malato... e per la vergogna anche... Sì, perché no? dopo che Nanni l'aveva mandata via, e cominciava a capire il male che aveva fatto... Fu una notte, nel casolare abbandonato dietro il ponticello, che prima serviva pei lavoranti della strada... Una notte che pioveva... e le pareva di morire, lì, sola e abbandonata... E non sapeva come fare, con quella creaturina abbandonata al par di lei... Poi, quando non l'udì più vagire, e la vide tutta bianca, si strascinò sino al burrone, là, nella cava delle pietre, e l'avvolse nel grembiule, prima, povere carni tenere d'innocente! Ma Nanni non sapeva nulla, com'è vero Dio. Non s'erano più visti... Potevano andare loro stessi, a vedere lì nella cava delle pietre, vicino al casolare, giù dal ponticello... Così Grazia andò in galera, ma loro se la cavarono colla sola paura della forca, il Zanno e l'aiutante. Però il Zanno fece voto a Dio e al Cristo di Spaccaforno che giovani non ne voleva più alla cintola, com'è vero Gesù Sacramentato! Nanni girò ancora un po' di qua e di là, finché spinto dalla fame tornò a Primosole, dove almeno ci aveva qualcuno. Trovò che suo padre era sotto terra, e l'Orbo guidava lui la chiatta, asciutto come un osso. Giusto c'era Filomena, che cominciava a farsi vecchia, e nessuno la voleva per quella storia di don Tinu e gli altri sdruccioloni che si erano scoperti dopo; la Filomena adesso gli diceva ogni volta: - Io ci ho la mia roba, grazie a Dio, e il marito che volessi prendere starebbe come un principe -. L'Orbo, che faceva da mezzano per un bicchier di vino, aiutava: - L'ho vista io con questi occhi. - Per me, - rispose alfine Nanni, - se voi siete contenta, sono contento io pure -. E si fece il nido come un gufo. Di correre il mondo ne aveva abbastanza ora, e badava a mangiare e bere colla moglie e gli avventori, che tenevano allegra la casa e lasciavano dei soldi nel cassetto. Ogni tanto gli portavano la notizia: - Sapete, zio Giovanni? vostro fratello gli è successo un accidente -. Oppure: - Gnà Benedetta, vostra sorella, ha avuto un altro maschio -. Tale e quale come suo padre, che aveva messo radici a Primosole, dopo che era rimasto zoppo, e venivano a dirgli sin lì quel che succedeva al mondo di qua e di là. Un giorno, dopo anni e anni, in mezzo a una torma di mietitori, vide passare anche una vecchia che neppure il diavolo l'avrebbe più riconosciuta, mangiata com'era dalla fame e dagli strapazzi, la quale gli disse: - Che non mi riconoscete più, compare Nanni? Sono Grazia, vi rammentate? - Ma egli la mandò subito via per paura di Filomena che ascoltava dal letto, come aveva fatto l'altra volta per paura del padrone che stava per venire. Ora voleva godersi tranquillamente la sua pace e la provvidenza che il Cielo mandava, insieme alla moglie che gli aveva dato Dio. E se si trovavano a passare il Zanno oppure don Tinu, che ora gli portavano rispetto, e lasciavano anche loro bei soldi all'osteria, soleva dire con la moglie, o con chi c'era: - Poveri diavoli! Costoro vanno ancora pel mondo a buscarsi il pane! - IL MAESTRO DEI RAGAZZI
La mattina, prima delle sette, si vedeva passare il maestro dei ragazzi, mentre andava raccogliendo la scolaresca di casa in casa: con la mazzettina in una mano, un bimbo restìo appeso all'altra, e dietro una nidiata di marmocchi, che ad ogni fermata si buttava sul marciapiede, come pecore stracche. Donna Mena, la merciaia, gli faceva trovare il suo Aloardo, già bell'e ripulito, a furia di scapaccioni, e il maestro, amorevole e paziente, si trascinava via il monello, che strillava e tirava calci. Più tardi, prima del desinare, tornava rimorchiando Aloardino tutto inzaccherato, lo lasciava sull'uscio del negozio, e ripigliava per mano il bimbo con cui era venuto la mattina. Così passava e ripassava quattro volte al giorno, prima e dopo il mezzodì, sempre con un ragazzetto svogliato per mano, gli altri sbandati dietro, d'ogni ceto, d'ogni colore, col vestitino attillato alla moda, oppure strascicando delle scarpacce sfondate; però tenendosi accosto invariabilmente le scolare che stava più vicino di casa, sicché ogni mamma poteva credere che il suo figliuolo fosse il preferito. Le mamme lo conoscevano tutte; dacché erano al mondo l'avevano visto passare mattina e sera, col cappelluccio stinto sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti come le scarpe, il sorriso paziente e inalterabile nel viso disfatto di libro vecchio; senza altro di stanco che il vestito mangiato dal sole e dalla spazzola, sulle spalle un po' curve. Sapevano pure che era un gran cacciatore di donne; da circa quarant'anni, dacché andava su e giù per le strade mattina e sera, al pari di una chioccia coi suoi pulcini, era sempre col naso in aria, agitando la mazzettina a guisa di uno zimbello, come un vero uccellatore, in cerca di un'innamorata - senza ombra di male - una che lo guardasse ogni volta che passava, e tirasse fuori il fazzoletto quando egli si soffiava il naso - niente di più; gli sarebbe bastato di sapere che in qualche luogo, vicina o lontana, aveva un'anima sorella. Talché lungo la perenne via crucis di tutti i giorni, egli aveva delle immaginarie stazioni consolatrici, delle invetriate che soleva sbirciare dacché svoltava la cantonata, e che avevano senso e parole soltanto per lui, alle quali aveva visto invecchiare dei visi amati - o scomparirne per andare a maritarsi - egli solo sempre lo stesso, portando una instancabile giovinezza dentro di sé, dedicando alle figliuole il sentimento che aveva provato per le madri, mulinando avventure da Don Giovanni nella sua vita da anacoreta. Era come la conseguenza della sua professione, l'incarnazione degli estri poetici che gli occupavano le ore d'ozio, la sera, dinanzi al lume a petrolio, coi piedi indolenziti nelle ciabatte di cimosa, ben coperto dal pastrano, mentre sua sorella Carolina rattoppava le calze, dall'altro lato del tavolinetto, anch'essa con un libro aperto dinanzi agli occhi. Faceva il maestro di scuola per vivere, ma il suo vero stato erano le lettere, sonetti, odi, anacreontiche, acrostici soprattutto, con tutte le sante del calendario a capoverso. Portava, sotto il paletò spelato, da un capo all'altro della città, strascinandosi dietro la scolaresca, la sacra fiamma dei versi, quella che fa cantare le giovinette al chiaro di luna sul veroncello - e doveva farle pensare a lui. Sapeva già, come se gliela avessero confidata, tutta la curiosità che doveva suscitare la sua persona, i palpiti che destava una sua occhiata, le fantasie che si lasciava dietro il suo passaggio. Troppo scrupoloso però per abusarne! Un giorno, lo rammentava sempre con una dolce confusione interna, una giovinetta alla quale andava a dare lezioni di bello scrivere a domicilio, volle regalargli per la sua festa un bel fiore ch'era in un vasetto della scrivania - rosa o garofano, non si rammentava pel turbamento che gli aveva fatto velo alla vista - glielo presentava con un atto gentile, e gli diceva, al vederlo timido e imbarazzato: - L'ho tenuto lì per lei, signor maestro. - No... la prego... Mi risparmi... - Come? non lo vuole? - Seguitiamo la lezione, di grazia!... Queste non son cose... - Ma perché? Che c'è di male... - Tradire la fiducia dei suoi parenti... sotto la veste di istitutore... - Allora la ragazza era scoppiata in una risata così matta, così impertinente, che gli squillava ancora nelle orecchie al ripensarci, e ancora, dopo tanto tempo, gli metteva in capo un dubbio, uno di quei lampi di luce che fanno cacciare il capo sotto il guanciale, per non vederli, la notte. Ah, quelle benedette ragazze, chi arrivava a capirle, per quanto gli anni passassero! Esse gli ridevano dietro le spalle. - Poi, dopo molto tempo, quand'egli passava a prendere i loro bimbi, tirando in su i baffetti ostinatamente neri, si sentivano intenerire da una certa commozione ripensando al passato, alle rosee fantasie della prima giovinezza, che evocava la figura melanconica di quell'eterno cercatore di amore. - Entrate, don Peppino, il ragazzo sta vestendosi. - No, grazie, non importa. - Volete aspettare al sole? - Ho qui i ragazzi. Non posso lasciarli. - Quanti ne avete, santa pazienza! Ce ne vorrà, da mattina a sera, tanto tempo che fate quel mestiere! - Sì, un pezzo che ci conosciamo, di vista almeno. Quando lei stava in via del Carmine, il terrazzino col basilico. Si rammenta? - Si diventa vecchi, don Peppino! Ora abbiamo i capelli bianchi. Parlo per me, che ho già una figliuola da marito. - Giusto, avevo portato qui una cosuccia per donna Lucietta. Oggi è la sua festa, mi pare. - Cos'è? l'immagine di santa Lucia? No, una poesia! Lucia, Lucia, vien qui, guarda cosa t'ha portato il signor maestro. - Piccolezze, donna Lucietta, scuserà l'ardire. - Bello, bello, grazie tante. Guarda che bel foglio, mamma. Sembra un merletto. - Son cose leggiere. Proprio un ricamino in versi, come ci vogliono per una bella ragazza qual è lei. Piccolezze, sa! - Grazie, grazie. Ecco Bartolino. È mezz'ora che il signor maestro t'aspetta, maleducato! - Guarda mamma; ritagliando il bordo della carta tutto in giro se ne può cavare un bel portamazzi, se oggi mi vengono dei fiori -.
La scuola era un grande stanzone imbiancato a calce, chiuso in fondo da un tramezzo che arrivava a metà dell'altezza, e al di sopra lasciava un gran vano semicircolare e misterioso, il quale dava lume a un bugigattolo che vi era dietro. Accanto all'uscio vedevasi il tavolinetto del maestro, coperto da un tappetino ricamato a mano, e sopra tanti altri lavori fatti di ritagli: nettapenne, sottolume, e un mandarino di lana arancione, colle sue brave foglioline verdi, causa d'infinite distrazioni agli scolari. L'altro ornamento della scuola, sulla larga parete nuda dietro il tavolino, era una cornicetta di carta traforata, opera industre della stessa mano, che conteneva due piccole fotografie ingiallite, i ritratti del maestro e di sua sorella, somiglianti come due gocce d'acqua, malgrado i baffetti incerati dell'uno, e la pettinatura grottesca dell'altra: gli stessi pomelli scarni che sembravano sporgere fuori della cornice, la stessa linea sottile delle labbra smunte, gli stessi occhi appannati, quasi stanchi di guardare perennemente, dal fondo dell'orbita incavata, lo sbaraglio delle seggiole scompagnate per la scuola; e tutt'in giro la tristezza delle pareti bianche, macchiate in un canto dalla luce scialba della finestra polverosa che dava nel cortiletto. Di buon mattino, appena il falegname accanto principiava a martellare, udivasi bispigliare due voci sonnolente nel bugigattolo oscuro, e poi s'illuminava il vano al di sopra del tramezzo. Il maestro andava a prendere una manata di trucioli, strascicando le ciabatte, tutto raggomitolato in un pastrano spelato, e accendeva il fuoco per fare il caffè. Allora, dietro la finestra appannata, vedevasi salire la fiamma del focolare annidato sotto quattro tegole sporgenti dal muro, e il fumo denso che stagnava nel cortiletto cieco. In fondo allo stanzino la sorella del maestro intanto cominciava a tossire, dall'alba. Egli andava a prendere le scarpe appoggiate allo stipite dell'uscio, l'una accanto all'altra, coi tacchi in alto, e si metteva a lustrarle amorosamente, mentre faceva bollire il caffè, ritto innanzi al fuoco, col bavero del pastrano sino alle orecchie. In seguito toglieva dal fuoco la caffettiera, sempre colla mano sinistra, per pigliare colla destra la chicchera senza manico dall'asse inchiodata accanto al fornello, la risciacquava nel catino fesso incastrato fra due sassi accanto al pozzo, e portava finalmente il lume nel bugigattolo, diviso in due da una vecchia tenda da finestra appesa a una funicella. La sorella si alzava a sedere sul letto in fondo, stentatamente, tossendo, soffiandosi il naso, gemendo sempre, colle trecce arruffate, il viso consunto, gli occhi già stanchi, salutando il fratello con un sorriso triste d'incurabile. - Come ti senti oggi, Carolina? - le chiedeva il fratello. - Meglio, - rispondeva lei invariabilmente. Intanto il sole sormontava il tetto di faccia alla finestra, come una polvere d'oro, in mezzo a cui balenava il volo dei passeri schiamazzanti. Dietro l'uscio passava lo scampanellare delle capre. - Vado pel latte -, diceva don Peppino. - Sì, - rispondeva lei collo stesso moto stracco del capo. E cominciava a vestirsi lentamente, mentre il maestro, accoccolato col bicchiere in mano, leticava col capraio che gli misurava il latte come fosse oro colato. Carolina andava a rifare il lettuccio piatto del fratello, dall'altra parte della cortina, rialzandola tutta sulla funicella per dare aria alla stanza, come era solita dire; e si dava a strascicare la scopa per la scuola, adagio adagio, movendo le seggiole una dopo l'altra, appoggiandosi al bastone della scopa per tossire, in mezzo al polverìo. Il fratello tornava coi due soldi di latte in fondo al bicchiere, e due panetti nelle tasche del pastrano. Ripiegavano un lembo del tappetino, per non insudiciarlo, e sedevano a far colazione in silenzio, l'uno di qua e l'altra di là del tavolino, tagliando ad una ad una delle fette di pane sottili, masticando adagio, e come soprapensieri. Soltanto, ogni volta che lei tossiva, il fratello rizzava il capo a fissarla in aria inquieta, e tornava a chinare gli occhi sul piatto. Alfine egli se ne andava colla mazzettina sotto l'ascella, il cappelluccio sull'orecchio, i baffetti incerati, tirando in su il colletto della camicia, infilandosi con precauzione i guanti neri che puzzavano d'inchiostro, seguito passo passo dalla sorella che si ostinava a passargli straccamente la spazzola addosso, covandolo con uno sguardo quasi materno, accompagnandolo dalla soglia con un sorriso rassegnato di zitellona, che credeva tutte le donne innamorate di suo fratello.
Anch'essa aveva avuto la sua primavera scolorita di ragazza senza dote e senza bellezza, quando rimodernava, ogni festa principale, lo stesso vestitino di lana e seta, e architettava pettinature fantastiche dinanzi allo specchietto incrinato. Oh, le rosee visioni che passarono su quella vesticciuola, mentre essa agucchiava le intere notti! e gli sconforti amari che la tormentarono dinanzi a quello specchio, al quale si affacciavano ogni volta inesorabilmente i pomelli ossuti ed il naso troppo lungo! In mezzo al crocchio allegro e civettuolo delle altre ragazze ella portava sempre come la visione dolorosa della sua figura grottesca, e se ne stava in disparte - per vergogna, dicevano le une, - per orgoglio, dicevano le altre. - Giacché passava anche lei per letterata. Nello squallore della loro miseria decente le lettere avevano messo un conforto, una lusinga, come un lusso delicato che li compensava della commiserazione mal dissimulata dei vicini. Essa teneva gelosamente custoditi, in belle copie tutte a svolazzi e maiuscole ornate, i versi del fratello; e quando egli si era lasciato vincere alfine dall'indifferenza generale, dalla stanchezza dell'umile e faticoso impiego che doveva fare delle lettere per guadagnarsi il pane, essa sola era rimasta una gran leggitrice di romanzi e di versi: avventure epiche di cappa e di spada, casi complicati e straordinari, amori eroici, delitti misteriosi, epistolari di quattrocento pagine tutte piene di una sola parola, nenie belate al chiaro di luna, dolori di anime in lutto prima di nascere, che piangevano delusioni future. Tutta la sua giovinezza squallida s'era consunta in quelle fantasie ardenti, che le popolavano le notti insonni di cavalieri piumati, di poeti tisici e biondi, di avvenimenti bizzarri e romanzeschi, in mezzo ai quali sognava di vivere anche mentre scopava la scuola o faceva cuocere il magro desinare, nel cortiletto cieco che serviva da cucina. E sotto l'influenza di tutto quel medio evo, la preoccupazione dolorosa della sua disavvenenza e della sua povertà manifestavasi in modo grottesco, con ricciolini artificiosi sulla fronte, trecce spioventi sulle spalle, sgonfi medioevali ai gomiti del vestito e gorgiere inamidate. - Che è l'ultimo figurino quello? - avevale chiesto un giorno la più elegante e la più crudele delle sue compagne.
Lui solo - tanto tempo addietro! - adesso era impiegato alla Pretura Urbana - quanti palpiti! quanta dolcezza! quanti sogni! Ed ora più nulla, allorché lo incontrava per caso, carico di moglie e di figliuoli! Allora era un giovinetto smunto, con grandi occhi pensosi che stavano a guardare i “vortici delle danze” dal vano di un uscio, come dall'alto, da cento miglia lontano. Le ragazze lo canzonavano anche un po' perché non ballava mai; lo chiamavano “il poeta”. Egli da lontano inchiodava uno sguardo fatale su quella ragazza, sola e dimenticata in un cantuccio al par di lui. Una domenica infine le si fece presentare; le disse con una lunga frase ingarbugliata che aveva ambito l'onore di far la sua conoscenza perché “nella festa” era l'unica persona con cui si potesse scambiare due parole: lo sentiva, gliel'avevano detto: sapeva anche che era una distinta cultrice delle lettere... “Le danze” giravano giravano “vorticose” in un gran polverìo, sotto la lumiera a petrolio, ed essi sembrano cento miglia lontani, proprio come nei romanzi, mezzo nascosti dietro la tenda all'uncinetto, lui col cappello sull'anca, e l'arco della mente teso per ogni parola che gli usciva di bocca; lei irradiata da quella prima lusinga che le veniva da un uomo, con una nuova dolcezza negli occhi, attraverso i ricciolini. - È un poema? - No, un romanzo. - Storico? - Oibò signorina! Per chi mi piglia? Sa il detto di quel tale: “Chi ci libererà dai Greci e dai Romani?...” - Genere Manzoni allora? - No, più moderno; stavo per dire più fine; certo più nervoso... tutta la nervosità del secolo in cui viviamo... - E il titolo? si può sapere almeno? - Lei sì! - Amore e morte! - Bello! bello! bello! Ci ha lavorato molto? - Saran quattr'anni circa. - Perché non lo fa stampare? - Il giovanotto alzò le spalle con un sorriso sdegnoso. - Peccato! Egli ebbe un lampo negli occhi, per la risposta che gli balenava in mente pronta e azzeccata; un lampo che illuse la poveretta: - Mi basta questa parola sua, guardi! - La Carolina avvampò di gioia; e chinò il capo, col petto che le scoppiava. - Che dice?... Io!... Che dice mai?... - L'altro gonfiandosi nel soprabito anche lui a quella prima lusinga che gli veniva da una donna, le lasciava cadere sul capo chino, dall'alto del suo colletto inamidato, la confidenza che il trionfo più ambito per uno scrittore è quello di una parola... una parola sola... d'encomio... d'incoraggiamento... che venga da una persona... - Pardon! - s'interruppe a un tratto tirandosi bruscamente indietro. - Gli è arrivata? - chiese scusandosi il padrone di casa che girava coll'annaffiatoio. - Mi dispiace, sa... Facevo perché si soffoca dalla polvere. Non le pare? - Il poeta continuava dicendo che era proprio una fortuna d'incontrarsi... in mezzo a tanta volgarità invadente... - Lei non balla? - domandò infine. - Io... - Stia tranquilla. Non ballo neppur io. Sa il detto di quel tale: “Non capisco perché cotesto lavoro non lo facciano fare dai domestici!” Ed è vero infatti. Provi a tapparsi le orecchie, per vedere l'impressione grottesca... - È vero, è vero. - Sentisse poi che discorsi! - Il caldo, la folla, i lumi... Quando si arriva a parlar delle acconciature è già un gran progresso. A proposito, lei è messa divinamente... No, no, mi lasci dire, è diversa dalle altre; un buon gusto, un'originalità... - Tese l'arco delle sopracciglia, e le scoccò l'ultima frecciata: - Insomma l'abito non fa il monaco; ma il buon gusto dice la persona... -
Com'era bello il valzer che sonavano in quel punto! come l'era rimasto in cuore tutta la notte! e come lo canticchiava poi a mezzavoce, cogli occhi gonfi di lagrime deliziose, cucendo nel cortiletto oscuro! Sul pilastrino del pozzo i garofani, che allungavano dal vaso slabbrato gli steli tisici, s'agitavano lieve lieve al sole, e parevano rinascere. Che pace ora con se stessa, quando si guardava nello specchio! che dolcezza in certi toni della sua voce! che soavità nel raggio della luna che baciava, in alto, il muro dirimpetto! e nell'oro del tramonto che scappava dal comignolo del tetto, e scintillava sui vetri di quella finestra dove si vedeva alle volte un fanciulletto biondo in una scranna a bracciuoli, immobile per delle ore! Vivere, vivere, anche in quel cortiletto triste, fra quelle quattro mura che avevano una melanconia intima e quasi affettuosa, nelle umili occupazioni divenute care, con quell'altro mondo fantastico che le aprivano i libri, sotto la carezza di quella voce fraterna, amorevole e protettrice; e in fondo al cuore poi come un punto luminoso, come una fibra delicata che trasaliva al menomo tocco, come una gran gioia che aveva bisogno di nascondersi e le balzava alla gola ogni momento, come una fede, come una tenerezza nuova per ogni cosa e ogni persona nota - e l'attesa di quella domenica, di quel ballonzolo periodico in mezzo alla polvere e al puzzo di petrolio, dove sapeva di rivedere colui che da otto giorni aveva preso tanta parte nel suo cuore e nella sua vita! Stavolta le venne incontro appena la vide, con una stretta di mano che riannodava a un tratto la loro intimità spirituale, e le si mise al fianco, dietro la tenda all'uncinetto, colla destra nello sparato della sottoveste, parlandole sempre di sé, delle sue inclinazioni, dei suoi gusti, delle sue ammirazioni, che erano poche e calde, della sua ambizione, che toccava il cielo. Di tratto in tratto, quando gli pareva che la ragazza chinasse il capo stanco sotto tutto quell'io implacabile, le accoccava un complimento, come un cocchiere fa schioccare la frusta nelle salite. La giovinetta però chinava il capo per la commozione, col cuore tutto aperto a quelle confidenze che cercavano avidamente la simpatia di lei. Egli pure, trascinato dalla sua foga, eccitato dalle sue frasi medesime, si abbandonava, cominciava a sbottonarsi, a scendere fino ai suoi piccoli guai: suo padre che lo contrariava nelle sue inclinazioni, nelle tendenze più spiccate del suo ingegno... Nei due anni d'Università non aveva imparato nulla. Aveva scritto soltanto dei versi sulle panche della cattedra di Diritto Civile. - Un vero parricidio! - osservò Carolina sorridendo. Egli per la prima volta la baciò con un'occhiata d'ineffabile tenerezza. - Carolina! Carolina! - chiamava il fratello. E sottovoce le disse all'orecchio: - Bada che tutti ti guardano; sei sempre con colui. Chi è? - Qua e là, dietro i ventagli, e nei crocchi delle ragazze, balenavano infatti dei sorrisi mal dissimulati. Ma Carolina, fiera, lo presentò al fratello: - Il signor Angelo Monaco, distinto poeta, l'autore di Amore e morte! - So che anche il signore è un chiaro cultore delle lettere! - disse il Monaco tendendogli la mano regalmente.
Il romanziere aveva “sollecitato l'onore” di leggere il manoscritto del suo romanzo in casa del maestro “per averne un giudizio illuminato e sincero”. Una sera, dopo la scuola, lo installarono dinanzi al tavolinetto dal tappetino ricamato, con due candele accese dinanzi, come un giocatore di bussolotti, don Peppino col capo fra le mani, tutto raccolto nel disegno di appioppargli alla sua volta la lettura dei propri versi, che si sentiva rifiorire in petto gelosi a quell'avvenimento; la sorella digià commossa dalla solennità dei preparativi, la porta chiusa, le seggiole dei ragazzi schierate in fila, come per una folla di ascoltatori invisibili.
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